Ci mettono un po’ di tempo, ma alla fine anche i soloni della ripresa ormai dietro l’angolo si rendono conto di come stanno davvero le cose nel mondo. Nella fattispecie dell’ormai non più latente guerra commerciale tra Usa e Cina a colpi di dazi ed esposti presso il Wto: c’è poco di commerciale e molto di politico, però, in questa disputa. Pechino ha scelto di cambiare strategia. Accumula commodities, compra oro e lo rimpatria, investente in energia verde per tagliare la dipendenza dal petrolio ma soprattutto punta a ridimensionare i rischi che il dollaro così debole comincia a rappresentare per le proprie riserve in bond Usa.
Washington, dal canto suo, tenta di reagire ma sa che uno scontro frontale con Pechino non le conviene affatto: l’America, di fatto, a un anno dal crollo di Lehman Brothers che ricorre oggi, sta seguendo il medesimo destino della sua celebre banca d’affari. Lo dicono i numeri, freddi ma inequivocabili. Sono quindici milioni i proprietari di casa in Usa ormai al default, quasi l’otto per cento di tutti i mutui garantiti dalla Federal Housing Administration stanno per andare in ripossessione: sono stati quasi quattrocentomila nel solo mese di agosto a conoscere il triste destino della foreclosure e da gennaio ad oggi il loro numero è stato ogni mese più alto se posto in diretto paragone con i primi nove mesi del 1932, l’anno della Grande Depressione.
Il Fondo Monetario Internazionale prevede 2,5 trilioni di perdite per le banche mondiali entro l’anno prossimo: ad oggi ne hanno denunciate solo 1. Nel mondo, nonostante sembrino passati secoli, circolano ancora allegramente e vengono trattati circa 2 trilioni di dollari di subprime a debiti Alt-A: non abbiamo capito granché la lezione. Altre due mega-bolle, quella dell’oro e ancora quella immobiliare, stanno gonfiandosi a dismisura creando i presupposti per l’attesa della prossima Lehman Brothers.
I leader mondiali non fanno che ripetere la solita, vecchia canzone: taglio dei bonus e degli stipendi d’oro e maggiori riserve di capitale per le banche. La prima è una misura populistica e poco più, la seconda un falso problema visto che due settimane prima di fallire Lehman aveva un Core tier 1 dell’11 per cento, il doppio di quanto richiesto dalla legislazione americana. Non è bastato.
La questione non è capire se sia stato giusto far crollare Lehman per salvare tutte le altre, la questione è che ormai i mercati reagiscono agli impulsi di crisi con la certezza pavloviana che gli Stati interverranno, che nessuno fallirà, che le tasse dei cittadini pagheranno il conto della leva eccessiva con cui si è ricominciato a scommettere. Le banche, colpite e costrette a ripagare quanto prestato loro dai governi, stanno puntando forte per ottenere in fretta grandi profitti: un cane che si morde la coda, visto che eventuali e sempre probabili perdite andranno a far crescere ulteriormente quel prestito da ripagare e porranno in condizione molto pericolosa i conti pubblici di molti paesi. Gli Usa sono a quota -628 miliardi di dollari, la Spagna a -109 miliardi, l’Italia a -62 miliardi, la Francia a -58 miliardi, la Gran Bretagna a -53 e la Grecia a -42 miliardi.
La grande giostra continua a girare ma il forte rischio che si corre è che prima o poi qualche meccanismo si inceppi. La pensa così una vecchia volpe del mondo finanziario, il presidente di Generali, Antoine Bernheim, secondo il quale «dopo la crisi finanziaria non si è fatto abbastanza per evitare che riaccada e ora c’è il rischio di una nuova bolla. Fornire molta liquidità – spiega Bernheim – a costo zero al mercato non è una soluzione, nel lungo periodo. Potrebbe creare inflazione e una nuova bolla. Non so se arriverà dall’immobiliare o dalla tecnologia o in quale settore, ma quello che è certo è che alcune banche ricominciano ad esagerare con credito facile e leverage. Finora non c’è stato abbastanza coordinamento a livello internazionale per dare nuove regole ai mercati finanziari».
Non appare più ottimista il premio Nobel per l’Economia, Jospeh Stiglitz, intervistato dal quotidiano La Stampa: «Servono nuove regole e in fretta, oggi a Wall Street la situazione è peggiore di un anno fa. In America abbiamo banche assai più grandi di quelle che c’erano un anno fa, mentre non abbiamo varato le regole necessarie per garantire maggiore protezione del denaro dei risparmiatori e degli investitori. Le dimensioni degli istituti di credito oggi sono tali da rendere impossibili i controlli».
Per Stiglitz sono possibili nuovi crolli: «Certo che lo sono. Non c’è alcun dubbio in proposito. Siamo in una situazione di maggiore pericolo rispetto all’autunno 2008 perché il crollo di una delle banche “troppo grandi per fallire” innescherebbe un terremoto di dimensioni maggiori».
Come dicevamo prima, regolatori e governi hanno creato le condizioni per l’attesa della prossima Lehman. Per questo occorre evitare che il mercato e i suoi principi diventino vittime di una nuova caccia alle streghe orchestrata dai governi, giorno dopo giorno sempre più responsabili della gravissima situazione che sta venendosi a creare: con due bolle già pronte a dilatarsi e una politica di tassi a zero pronta a lanciare una minaccia inflattiva non è affatto detto che non possa ancora una volta essere il comparto bancario a scatenare l’effetto domino.
Cominciano, finalmente, a dirlo e pensarlo in troppi per essere semplice pessimismo fine a se stesso: speriamo non sia tardi. E speriamo che a fine mese, al G20 di Pittsburgh, si cominci a ragionare seriamente sulla exit strategy dalle politiche di stimolo a pioggia piuttosto che sui bonus dei banchieri.