La crisi esplosa un anno fa con il crollo di Lehman Brothers non può certo dirsi ancora passata e restano ancora azioni da intraprendere. Ne è convinto anche Alberto Quadrio Curzio, economista e Preside della facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano, che in questa intervista a ilsussidiario.net sottolinea la necessità di interventi sul fronte delle regole e del crescente debito pubblico di molti paesi.
Professore, a un anno di distanza dal crack di Lehman Brothers, secondo lei cosa è stato fatto di buono?
A monte della crisi vi erano cause strutturali, come la carenza di risparmio negli Stati Uniti che ha portato l’indebitamento delle famiglie sui mutui delle case all’80% del Pil. Abbiamo poi visto cause economico-istituzionali: l’eccesso di liberalizzazione unito alla carenza dei controlli, della vigilanza, e alla scarsa capacità di valutazione delle società di rating nei loro giudizi.
Tutto questo ha provocato il disastro cui abbiamo assistito. Di buono ci sono stati gli interventi dei governi e delle banche centrali che hanno evitato il collasso del sistema finanziario internazionale e di conseguenza danni irreparabili al sistema economico.
Cosa invece a suo avviso non è stato ancora fatto?
Stiamo aspettando ancora due tipi interventi. Il primo riguarda la definizione di regole e di un sistema di vigilanza che possa poi farle rispettare. In questo senso sarà importante il prossimo G20 di Pittsburgh e l’azione di organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e il Financial Stability Board.
Occorre poi prestare molta attenzione ai conti pubblici. Assistiamo infatti a una spaventosa crescita del debito pubblico rispetto al Pil in molti paesi, in particolare in quelli più sviluppati, e bisognerà intervenire con apposite strategie anche in questo campo.
Alla radice della crisi vi sono state anche cause di tipo culturale?
Ci sono stati comportamenti estremi, peraltro accettati dal sentir comune, in alcuni paesi riguardo i compensi degli operatori finanziari.
Un altro aspetto, che è stato meno considerato, è la divaricazione crescente tra la finanza speculativa e l’economia reale, che è stata una delle grandi cause della crisi. Infatti, i profitti dell’economia reale sono necessari perché si traducono in investimenti che portano alla crescita.
Infine, la stessa riflessione complessiva degli economisti, categoria di cui faccio parte, non ha colto la dimensione del fenomeno, salvo qualche eccezione.
Cosa pensa del discorso tenuto dal presidente degli Stati Uniti Obama alla Federal Hall?
Penso che egli abbia ragione e che tocca alle istituzioni fissare e far rispettare le regole. Purtroppo negli Stati Uniti c’è una parte molto influente dell’estabilishment che è in grado di impedire alle istituzioni di riformare le regole ed è più forte del presidente stesso.
Ho l’impressione che Obama potrà farcela solo passando attraverso il G20, il Fondo Monetario Internazionale o il Financial Stability Board, cioè con accordi internazionali che potrà poi calare nel proprio paese.
Venendo invece all’Italia, Tremonti ha rimproverato le banche di non far ricorso agli strumenti messi in campo dal governo. Le banche dal canto loro stanno cercando di ricapitalizzarsi attraverso il mercato. Cosa ne pensa?
Ritengo che i Tremonti bond siano comunque serviti, anche se non utilizzati, perché la sola possibilità di usarli ha dato al sistema bancario un forte elemento di sicurezza. Se poi le banche riescono a reperire capitali andando sul mercato tanto meglio, perché così ricomincia la fisiologia normale dei mercati. A patto che la raccolta fatta con queste forme di ripatrimonalizzazione serva per erogare il credito.
A proposito di credito, qui si scontrano le esigenze di banche e imprese. Secondo lei chi ha ragione?
Hanno ragione entrambe: le imprese hanno bisogno di credito e le banche hanno bisogno di erogarlo a imprese che possano poi restituire il prestito. Credo però che con la moratoria sui crediti sia stata raggiunta una buona soluzione per soddisfare le esigenze delle une e delle altre.
In un’intervista al nostro quotidiano, Enrico Cisnetto sostiene che dal 1992 al 2007 il nostro paese ha perso terreno rispetto ai competitors stranieri: un segno che il nostro sistema di Pmi è inadeguato e che lo slogan “piccolo è bello” non dovrebbe essere difeso a tutti i costi. Cosa ne pensa?
Il surplus commerciale manifatturiero dell’Italia tra il 2007 e il 2008 ha segnato un record: escludendo la parte energetica è arrivato a circa 70 miliardi di euro. Le nostre imprese hanno saputo reagire alla concorrenza cinese, alla forza dell’euro e hanno saputo competere sui mercati mondiali.
Detto questo, io stesso ritengo che sia opportuno che la dimensione media delle imprese italiane cresca attraverso fusioni e accorpamenti. Tuttavia la dimensione delle imprese italiane non sarà mai quella delle grandi imprese francesi.
Credo che le nostre Pmi abbiano fatto molto bene e che le cosiddette multinazionali flessibili (imprese con un fatturato di 1-1,5 miliardi di euro) che noi abbiamo sono molto potenti e sarebbe bene averne di più.
Come si potrebbe arrivare a questo obiettivo?
Personalmente avevo fatto ipotesi su incentivi fiscali e creditizi per favorire gli accorpamenti, anche se ci sono elementi preclusivi a livello europeo relativi agli aiuti di Stato. Detto questo occorre anche che i nostri imprenditori – sebbene l’affezione per le proprie imprese sia comprensibile – si “spersonalizzino” rispetto all’impresa per consentirne una crescita. È questo non è affatto semplice nel nostro paese.