A un anno dal default delle banche Usa il mondo finanziario fa ancora i conti con i contraccolpi e le conseguenze della crisi. In Italia le banche restano il tema più controverso: il ministro dell’Economia le ha recentemente accusate di non utilizzare i Tremonti bond, ma esse – che hanno mostrato i conti semestrali in ordine – finora hanno quasi tutte gentilmente declinato l’offerta. Berlusconi, settimana scorsa, ha spezzato una lancia a loro favore: «le banche sono lì per far credito – ha detto il premier – ma siccome lo fanno con i soldi dei risparmiatori, devono fare buon credito ed essere sicure che, quando danno i soldi, le aziende siano in grado di restituirli». Sul tema del credito, dello sviluppo e della competitività del sistema paese interviene Enrico Cisnetto, editorialista.
Cisnetto, il ministro Tremonti rimprovera alle banche di non far ricorso agli strumenti messi in campo dal governo. Berlusconi però le ha difese.
Questa volta sono d’accordo col presidente del Consiglio. Non mi pare utile ora alimentare il tiro a segno contro le banche. Credo che abbiano avuto una parte non marginale, certo, nella crisi finanziaria, e che l’eccesso di finanziarizzazione sia stato un difetto condiviso dall’intero sistema economico e politico mondiale. Le banche hanno responsabilità, ma non facciamo dei processi e delle colpe lo sport nazionale. È molto più importante pensare come uscire da questa situazione.
Ma chi ha ragione tra banche e imprese? Le banche danno o non danno soldi al sistema economico?
Penso che occorra guardare ad entrambi gli aspetti: da un lato quello che gli imprenditori dicono ha un fondamento, cioè che le banche hanno creato una situazione di meccanismi più rigidi e complicati rispetto al passato per valutare il merito di credito. Poi il gigantismo e l’allontanamento territoriale non hanno certamente favorito il rapporto diretto con gli imprenditori.
Ma questo non è tutto, diceva.
No, perché il sistema produttivo, oggi, propone alle banche interventi di salvataggio e di tamponamento di situazioni che sono da tempo border line, e che non è nell’interesse del sistema Italia andare a difendere oltre misura. Dobbiamo prender atto che la crisi non è congiunturale ma strutturale, e mette in evidenza i difetti del capitalismo italiano. Che ben conosciamo: imprese troppo piccole, posizionamento nei settori merceologici più difficili, posizionamento internazionale marginale, e via dicendo.
Non accusiamo le banche ingiustamente, dunque.
Prescindere dal fatto che la crisi si è verificata soprattutto perché c’era un eccesso di debito nel mondo, e questo perché si davano i soldi con troppa facilità, e pensare ora che le banche debbano dare credito a tutti per non finire sul banco degli accusati, togliendo loro il diritto di esaminare chi e quello che hanno davanti, mi sembra eccessivo.
Ma allora il problema dell’Italia dove sta?
La crisi ha fatto venire fuori nodi antichi irrisolti con una storia ben più lunga di quella della crisi finanziaria globale. I nostri problemi sono evidenziati da 15 anni di regressione del Pil rispetto ai concorrenti internazionali: dal 1992 al 2007 abbiamo perso 15 punti rispetto all’area euro e 35 punti nei confronti degli Usa.
Chi mettiamo sul banco degli imputati? La nostra impresa o la politica?
Le nostre imprese sono un elemento che, dati gli attuali fattori della competizione industriale e tecnologica globale, presenta caratteristiche fortemente penalizzanti. Non incolpiamo, quindi, le banche; piuttosto, diciamo che le banche andrebbero indotte ad aiutare l’unione delle imprese per fare imprese più grandi, superando tutte le idiosincrasie dei piccoli imprenditori. Per questo pensio che l’attuale pressione sulle banche non sia solo indebita ma anche sbagliata. Il nostro sistema bancario, lungi certo dall’essere esente da difetti, è stato molto meno toccato dalla crisi finanziaria di altri.
Le nostre pmi non sono il fiore all’occhiello del sistema Italia?
Se il paese avesse sistemato le sue contraddizioni, e se fosse vero che il nostro capitalismo fatto di pmi ha guadagnato una solida posizione nell’ambito della competizione mondiale, allora sì che avrebbe senso “conservare”. Ma la realtà è che la nostra competitività è in calo da anni. Questo dev’essere il dato che fa riflettere, invece del mantra secondo il quale “piccolo è bello” e perciò Calimero va protetto.
Non potrà negare che siamo anche il paese delle eccellenze in tutti i campi o quasi.
Certo che no. In una situazione complessa c’è di tutto: le piccole imprese virtuose, le piccole nicchie di mercato ad alta competitività, le multinazionali tascabili, le medie imprese dinamiche, ma quanto valgono tutte queste sui cinque milioni di imprese che esistono nel paese? La verità è che non si può allora andare incontro a questa fase facendo un’esaltazione acritica del sistema Italia così com’è. Questa è una diagnosi sbagliata che ci inganna, perché trasforma uno stato di fatto in una virtù che non c’è.
Lei simpatizza per la crisi?
La crisi ha fatto in modo che tante, troppe “protezioni” venissero meno: spesa pubblica, credito facile, nero facile, tutta una serie di meccanismi distorsivi che hanno fatto galleggiare un sacco di imprese. Il momento in cui si vedranno le reali conseguenze della crisi sarà la ripresa, cioè quando gli altri si muoveranno e noi rimarremo fermi.
Il nuovo fronte della crisi si chiama disoccupazione e Napolitano da Cernobbio ha lanciato l’allarme. Allo stesso tempo da parte sindacale ci sono novità: Epifani e Marcegaglia hanno fatto prove di dialogo. Come sarà lo scenario d’autunno?
Da un lato temo ma dall’altro confido nella disoccupazione… Mi rendo conto di fare un’affermazione molto pesante e la spiego subito. La disoccupazione è la spia del fatto che molte imprese, che sembravano poter sopravvivere ma che in realtà avrebbero dovuto essere già morte da tempo, la crisi mette definitivamente in difficoltà. Se la crisi toglie di mezzo i pesi morti che ci sono costati tanto dal punto di vista sociale e sindacale, non deve farci paura. Pronti dunque alla selezione darwiniana se serve a renderci più competitivi.
Tremonti ha stupito tutti dicendo che la cassa integrazione non è un problema perché – ha detto – abbiamo risorse «inimmaginabili».
La cassa integrazione concepita in modo virtuoso è un tampone di fronte ad una difficoltà momentanea. Ma poiché le difficoltà che abbiamo preesistono alla crisi e sono strutturali, non vorrei che la cassa finisse per rimandare l’affronto dei veri problemi. Anzi, vedrà che sarà così.
Lei ha parlato di una disoccupazione “sana”. Forse però al governo non la pensano come lei. E nemmeno chi resta a casa.
Ma qui non si tratta di compiacersi della disoccupazione altrui. Il fatto è che possiamo guardare con serenità alla selezione darwiniana, e alla conseguente disoccupazione che questa selezione crea, se di fronte alla situazione ho un progetto alternativo, cioè se c’è qualcosa che può assorbire i disoccupati. Ma in Italia non c’è né un capitalismo tale da poter creare questi presupposti. Non ci sono più le Mediobanca di una volta, non ci sono più gli imprenditori di una volta ma, soprattutto, non c’è una visione politica.
Qual è il nome di questa “visione politica”? L’intervento dello stato?
Questa crisi ha spazzato via l’idea ultraliberista che il mercato fa tutto da solo, ma ci dice anche che c’è bisogno dell’intervento pubblico. Nella forma non dell’ombrello dei soldi pubblici, ma di una politica industriale, cioè della scelta di alcuni settori sui quali puntare. Trasformando la spesa pubblica in spesa per investimenti.
Una politica industriale può far cambiare il corso della selezione darwiniana?
Se così non facciamo la selezione darwiniana avverrà comunque. E la crisi è tale che in ogni caso l’ombrello risulterà bucato e farà bagnare chi sta di sotto: aziende o posti di lavoro che siano. Col risultato che saremmo al punto di partenza, in una situazione arretrata, senza aver cambiato una virgola. Non fermiamo gli effetti della crisi e non tentiamo di salvare l’insalvabile.
Prima le ho citato Confindustria e sindacati. Cgil in particolare…
Non metto naturalmente né Confindustria né sindacati sul banco degli accusati; fanno evidentemente ognuno il proprio interesse e questo fa parte del gioco. Tra parentesi, faccio notare che Confindustria rappresenta le imprese che ci sono e non quelle che ci dovrebbero essere. È la politica che deve porsi le domande e prospettare soluzioni.