A un anno dal fallimento della Lehman Brothers, lo scenario economico mondiale è oggi profondamente cambiato. Nonostante la Commissione europea abbia leggermente ribassato le previsioni di crescita per il nostro Paese, anche per l’Italia i miglioramenti assumono di mese in mese una consistenza più chiara e definita.
La recente certificazione da parte dell’Istat dell’aumento a luglio della produzione industriale dell’1% su base congiunturale rende ora probabile anche per noi l’uscita dalla recessione nel terzo trimestre 2009, così come già accaduto per Francia e Germania in riferimento già al secondo trimestre dell’anno.
Si apre però ora la lunga fase della ripresa, che vuol dire ricominciare a crescere ma anche convivere con le conseguenze della crisi. Il superindice dell’Ocse segnala che le prospettive sono particolarmente favorevoli per l’Italia ma la disoccupazione continua a preoccupare. La Confindustria ad esempio, che pur ha invece rivisto al rialzo le previsioni economiche dello scorso giugno ipotizzando ora una variazione del Pil del -4,8% per il 2009 e del +0,8% nel 2010, stima che complessivamente tra il quarto trimestre 2008 e il quarto trimestre 2010 il numero degli occupati si ridurrà di 700mila unità.
Sono cifre impressionanti che fanno riflettere su quanto drammatico sia stato il periodo trascorso. È necessario allora cominciare a ragionare su cosa fare per aiutare il nostro sistema produttivo, per la gran parte composto da Pmi di famiglia oggi ancora in affanno, a riprendere a marciare come sempre avvenuto in passato.
Il punto è che a nostro avviso le politiche, e quelle industriali più delle altre, devono sempre nascere dal basso, valorizzando le risorse locali e salvaguardando le identità e le tradizioni, ma la loro concreta implementazione, per essere efficace, richiede un’azione di sistema che deve basarsi sulla collaborazione e cooperazione tra soggetti del territorio in una prospettiva di lungo periodo. Di qui, tra l’altro, l’importanza di soggetti come le Camere di Commercio, enti rappresentativi del tessuto economico locale che si collocano all’intersezione tra imprese e istituzioni, tra Stato, società e mercato, e che sono essenziali per la promozione delle reti (economiche, sociali, scientifiche, ecc.) di cui il nostro Paese è ricco.
È bene subito ribadire in premessa che sinora il Governo ha ben operato seguendo due grandi linee di intervento: sostegno e difesa dell’occupazione attraverso l’utilizzo degli ammortizzatori sociali e riattivazione del circuito del credito alle imprese sia attraverso i Tremonti bond sia attraverso l’accordo Abi-Confindustria sulla moratoria dei debiti delle piccole e medie imprese nei confronti degli Istituti di credito. Entrambe queste grandi direttive sono state perseguite sotto il vincolo della salvaguardia dei conti pubblici e quanto questo vincolo abbia condizionato l’entità delle misure adottate è ben noto a tutti e per certi versi è ancora oggetto di ampia discussione tra gli economisti. A noi sembra che la prudenza del Ministro Tremonti sia stata non solo opportuna ma anche meritoria perché le pressioni per un maggiore (e in prospettiva assai pericoloso) allentamento del rigore sono state nei mesi passati molto forti.
Dunque il tema è oggi cosa fare per consentire alle nostre Pmi di agganciare rapidamente la crescita. E la risposta va cercata nella necessità di stimolare ad ogni livello la creatività dei nostri imprenditori e il contenuto innovativo nei nostri prodotti. Il problema è però che le imprese italiane, per una pluralità di motivi che fanno riferimento tra l’altro alla dimensione ridotta e alla specializzazione in settori manifatturieri spesso cosiddetti “tradizionali”, hanno una spesa in ricerca e sviluppo (R&S) piuttosto modesta e comunque sistematicamente inferiore a quelle degli altri Paesi industrializzati nostri competitor.
Anche l’interazione tra ricerca e produzione, ovvero tra il sistema delle Università e quello delle imprese, è da noi piuttosto ridotto e tipicamente limitato a settori molto specifici, anche se è bene dire che possediamo in molti campi delle vere e proprie eccellenze, competenze assai sofisticate e apprezzate in tutto il mondo. Ma se la nostra innovazione non è, se non in misura limitata, di natura tecnologica, nel senso che non discende dalla ricerca che si svolge nei grandi laboratori o nelle Università o nei centri di ricerca, da dove deriva allora la nostra capacità innovativa (ampiamente certificata dai successi dell’export)?
La risposta è che si tratta di una innovazione che in massima parte deriva dallo straordinario capitale sociale e dal ricchissimo capitale umano di cui è ricco il nostro sistema manifatturiero, per lo più composto da piccole e medie imprese a carattere familiare. Un esempio è rappresentato dall’apprendimento informale che si realizza attraverso lo scambio di informazioni e conoscenze che avvengono in ambito lavorativo e che permette di pensare e ideare miglioramenti al modo di produrre e alla produzione stessa. Un’innovazione di questo tipo si può conseguire solo se, a partire da un elevato capitale umano con forti dosi di imprenditorialità a tutti i livelli, sussistono rapporti di fiducia e abitudini alla cooperazione che si sono sedimentate nel corso del tempo.
Questa interazione virtuosa tra capitale umano e capitale sociale è la cifra della nostra innovazione, e la forza e la vitalità delle nostre imprese risiede in gran parte nella loro capacità di valorizzare e far crescere le persone e di far nascere solidi rapporti di fiducia nell’ambiente di lavoro. Concretamente poi la nostra capacità innovativa, che spesso si definisce di tipo informale, si realizza attraverso l’utilizzo di nuovi macchinari, lo sfruttamento di nuovi mercati, l’introduzione di nuove strategie organizzative, di nuove forme di commercializzazione, di miglioramenti nelle procedure di produzione e nella logistica, ecc. Ma come si stimola allora questa peculiare innovazione?
La mossa vincente, in una prospettiva volta a valorizzare quanto di buono già abbiamo ma anche a individuare cosa fare per aumentare la nostra capacità competitiva, risiede nella promozione di nuovi settori, come la bio-edilizia, l’agro-industria, l’energia-ambiente, ecc., che abbiano in comune due fondamentali caratteristiche: siano in grado, da un lato, di far interagire tra loro più comparti produttivi e, dall’altro, nascano dagli sviluppi della ricerca applicata e siano a loro volta capaci di generare ulteriore ricerca.
Il ciclo del legno è, in questo senso, paradigmatico perché comporta il coordinamento delle politiche forestali con le politiche per lo sviluppo dell’edilizia, l’attenzione al risparmio energetico ma anche all’artigianato e al settore del mobile e dell’arredamento. Facendo interagire tra loro conoscenze, competenze e sensibilità di settori diversi si crea capitale sociale, si arricchisce lo stock di capitale umano, si stimola l’interazione virtuosa con il mondo della ricerca, generando in tal modo non soltanto innovazione di processo e prodotto ma anche vera innovazione di sistema, come quella dei distretti industriali che ha reso ovunque famoso il made in Italy.
La crisi ha messo a dura prova le proverbiali doti di resistenza del nostro sistema produttivo ma non ha impedito ai nostri imprenditori di riaprire a settembre le aziende con rinnovata fiducia e determinazione, anche se spesso i portafogli ordini non vanno più in là di uno o due mesi. È il momento di sviluppare nuove idee per passare dalla genialità imprenditoriale del singolo all’innovazione di sistema che richiede concretezza, cooperazione e lungimiranza nel lungo periodo. La nostra piccola imprenditorialità merita oggi di essere aiutata in una sfida competitiva che non si preannuncia né semplice né breve.