Settembre è arrivato. E storicamente il mese di settembre porta con sé rialzi degli indici solo se questi hanno subito contrazione nei mesi precedenti: essendo stato agosto il sesto mese consecutivo di guadagni, tutto lascerebbe pensare a un settembre nero. Lo avevamo scritto mesi fa ma la ragione del crollo dei futures e del tracollo dei titoli bancari in Europa non è da mettere in relazione a fattori di aggiustamento tecnico, bensì a qualcosa di molto più serio. I nodi, infatti, stanno venendo al pettine.
L’intemerata di Gordon Brown ieri sul Financial Times contro i bonus dei banchieri – che dovrebbero essere legati a performance di lungo periodo e non a guadagni a breve frutto di speculazione – parla chiaramente la lingua di una manovra difensiva: ieri il titolo di Lloyds Tsb è letteralmente crollato, segno che nessuna operazione di intervento pubblico sembra aver rimesso in sesto l’ex gigante devastato dalla folle acquisizione di Hbos, una vera e propria miniera di assets tossici. Peccato che quel gigante sia pubblico per il 37 per cento e che la Bank of England abbia detto a chiare lettere che altri interventi di stimolo non sono possibili salvo rischi di default sul debito pubblico già schizzato alle stelle. Ubs, che poco tempo fa annunciava trionfale il ritorno agli utili, perdeva il 3,7 per cento e persino il blindatissimo Banco Santander cedeva l’1,7 per cento.
Insomma, c’è poco da stare allegri. E per una questione sistemica, non certo per l’effetto “correzione”, parola cari lettori che vi conviene tenere a mente perché diverrà il mantra delle prossime settimane, potete scommetterci. D’altronde la BaFin, l’ente regolatore di Borsa e mercati in Germania, ha reso noto da tempo – nel silenzio generale – che i bad debts in pancia alle banche tedesche «stanno per scoppiare come una granata» avendo toccato quota 816 miliardi di euro, 268 dei quali in conto solo a Hypo Real. Senza dimenticare che il deficit tedesco sta toccando il 6%, portando il debito su Pil all’86%: stiamo parlando della locomotiva d’Europa. Gli esperti della Bce, d’altronde, hanno parlato chiaro: ci sono almeno altri 203 miliardi di euro di svalutazioni da fare entro l’anno nei bilanci delle banche Ue e questo nonostante proprio la Banca centrale europea abbia recentemente iniettato la cifra monstre di 442 miliardi di euro nel sistema per rilanciare il credito. Tutto inutile.
L’economia della Germania, si sa, è un po’ il termometro con cui si misura lo stato di salute dell’Europa. Beh, il check up non è dei migliori per il vecchio continente. La Confindustria tedesca ha confermato che la metà dei suoi membri sta patendo una contrazione del credito e lo stesso ministro delle Finanze, Peter Steinbruck, ha dovuto finalmente ammettere che «dobbiamo prendere molto seriamente in considerazione il rischio di un credit crunch per la seconda metà di quest’anno».
Ma non basta. A confermare la gravità della situazione sono giunte le richieste accessorie di Steinbruck: sospensione di Basilea 2 per permettere il salvataggio delle banche e soprattutto prestito diretto da parte dello Stato per far ripartire il credito. Suona, ad occhio e croce, come una chiamata d’emergenza. Ma dal resto dell’Unione non arrivano notizie migliori. Il ministro spagnolo delle Finanze, Luis Espadas, ha confermato con il massimo del candore che il rapporto debito pubblico/Pil della Spagna potrebbe tranquillamente raggiungere il 90%: nel 2007 era il 36%, tanto per capirci. Quello italiano è previsto al 116% nel 2010, quello greco al 109%, quello belga al 101% e quello francese all’86%. La contrazione dell’eurozona quest’anno – stando a dati del Fondo Monetario Internazionale – toccherà il 4,8% contro il 2,6% degli Stati Uniti. È questo il vero rischio, il combinato tra secondo credit crunch e ulteriore contrazione dell’economia reale. E purtroppo questo rischio verrà sottovalutato in ossequio a due dati: il fatto che molti manager di hedge funds hanno perso il rally e ora vogliono rifarsi – e questo spiega l’immensa quantità di capitale che stanno immettendo sul mercato anche sotto forma di scommesse quantomeno azzardate e bullesche – e la prosecuzione dell’effetto “ricostituente” garantito ai mercati dalle manovre di stimolo senza precedenti messe in atto dai governi, capaci di durare ancora per qualche mese se l’ottimismo autoimposto dei fondi garantirà cash-flow e rendere – in maniera eterodiretta e di fatto falsa – i book meno illiquidi.
La fantasia al potere, figlia anche dell’appuntamento elettorale in Germania, traino d’Europa e come già detto principale vittima delle operazioni spericolate delle banche, che sta annacquando il dibattito spostandolo verso il tema populistico e di facile presa – ottimo anche come scusante in caso la bolla esploda – dei bonus dei manager da rivedere e tagliare, argomento non a caso dell’intervista fiume di Gordon Brown ieri sul Ft, quasi un monito in vista del G20. Insomma, la Borsa farà su e giù ma questo non significa che i green shots primaverili siano da considerare veri segnali di ripresa: anche perché in molti guardano all’Asia come terreno d’azione per investire e far ripartire la ruota, ma se l’indice manifatturiero cinese è salito da luglio dello 0,6 per cento, il nuovo governo giapponese – democratico dopo una tradizione di conservatorismo e composto, come pare, da molti parvenu – potrebbe non essere in grado di gestire la situazione. E se il Giappone inciampa non sarà solo l’indice Nikkei a pagare il prezzo ma l’intera area: un’area che, in un mondo globalizzato come questo, si chiama sistema. E riguarda tutti noi.