Non c’è benzina per alimentare il motore della ripresa. E così l’Italia, nell’anno terzo della crisi planetaria, dovrà muoversi come un aliante, abile a sfruttare i venti, approfittando dei refoli per prender quota e avvitandosi nei cieli per evitare le brusche picchiate: l’importante è mantenersi in quota nella speranza di una spinta in arrivo dall’esterno, magari dalle pianure della Cina che accelera produzione e acquisti pure del made in Italy. La speranza di risalire, ancora una volta, ancorata all’andamento dell’export: la ripresa della domanda interna, in tempi di vacche magre, è di là a venire.



Pare questa la filosofia della mini finanziaria firmata da Giulio Tremonti, fatta di tante tabelle e di pochi articoli, una diligenza così leggera e veloce da sfuggire agli agguati parlamentari: la situazione non consente di aumentare le spese o nemmeno di correggere il tiro. In compenso, l’attenzione sul fronte delle uscite ha aumentato la credibilità del Tesoro, il bene più prezioso per un Paese che minaccia di riavvicinarsi ad un rapporto debito/pil vicino al 120% (il 117,3% a fine 2010).



Guai se la comunità internazionale riaccendesse il faro su Bot e Btp in un passaggio così delicato per il gettito dello Stato, “ferito” dal calo del Pil. Non facciamoci illusioni, insomma. Quando il gioco si fa duro, del resto, all’Italia non resta che una strategia di gioco: il catenaccio, ovvero primo non prenderle. Ed è quello che l’Italia tenta di fare, utilizzando le sue risorse (limitate) sul fronte degli ammortizzatori sociali, tamponando le inevitabili tensioni sul fronte dell’occupazione. E poco più.

Molto di quel “poco più” è legato a un jolly difficilmente quantificabile, allo stato delle cose: lo scudo fiscale. Le risorse così raccolte finiranno in un apposito fondo presso la presidenza del Consiglio che servirà a finanziare “le spese ineludibili”: università, ricerca, 5 per mille; una parte finirà, infine, agli ammortizzatori sociali o comunque nel comparto lavoro.



Molto, naturalmente, dipenderà dall’importo: dopo le ultime modifiche al testo dello scudo, non è improbabile “sognare” un incasso di dieci miliardi (pari al rientro di 200 miliardi), ovvero tre volte il valore del provvedimento varato ieri. Un bel tesoretto, meno virtuale di quello dei tempi del governo Prodi ma che non susciterà minori appetiti. Vedremo se Tremonti saprà difendere quella diligenza.

La finanziaria, intanto, rifiuta il “consiglio” dell’Ocse, e cioè utilizzare i quattrini dello scudo per ridurre il deficit. Una scelta dettata dallo stato di necessità, ma che lascia ben poche speranze su un possibile futuro cambio di marcia: l’ipoteca del debito pesa in maniera inesorabile sulla crescita del Pil (dal ’97 ad oggi, anche negli anni migliori, non c’è stata crescita reale al netto dell’inflazione) e sulla produttività, frenata di un 10%.

 

Non c’è grande spazio nemmeno per un alleggerimento fiscale sulla busta paga, destinato comunque ad essere il grande tormentone del 2010: le maggiori disponibilità di finanza pubblica rispetto al Dpef, promette il testo finale, dovranno essere destinate alla riduzione della pressione fiscale. Ma è realistico sperare in “maggiori disponibilità di finanza pubblica”? Forse sì, visto che l’andamento dei tassi dei Bot, vicini allo zero, consente discreti risparmi sul fronte della spesa. Forse no, dati precedenti: negli anni passati il richiamo agli sgravi fiscali è rimasta lettera morta, nonostante le promesse elettorali. Facile che stavolta, quando si avvicina il ricorso alle urne, le cose vadano diversamente.

 

Ancor più facile che, nei prossimi mesi, il governo debba riaprire il dossier della finanza locale, pena il rischio di un’“insurrezione” anche delle amministrazioni amiche. La Finanziaria “light”, infatti, risulta poi particolarmente indigesta alle Regioni, ancora in attesa di risposta su capitoli di spesa vitali e strategici, quali il fondo sanitario. Il paradosso è che, più si parla di federalismo, meno risorse vengono destinate al livello regionale. Nel frattempo la Ragioneria dello Stato segnala che, a proposito della spesa delle amministrazioni centrali, risultano inutilizzati residui per 90 miliardi, cioè “somme impegnate e non pagate”. Insomma, lo Stato italiano fa quadrare, a fatica, i conti non onorando le spese. Come non è concesso a migliaia di Pmi.