Sarà il G20 della ripresa, dicono non senza retorica. A Pittsburgh oggi e domani i leader dei paesi ai quali si vorrebbe affidare una sorta di kantiano “governo mondiale”, sono chiamati a discutere gli strumenti non più per salvare l’economia dal collasso o per attenuare le conseguenze della recessione, ma per rimettere in moto un nuovo ciclo di sviluppo. La svolta si sta manifestando un po’ ovunque. Cina e India viaggiano già a un buon ritmo (7-8 per cento).



Negli Stati Uniti, giugno ha rappresentato il mese in cui si può datare l’inizio della ripartenza. L’Europa segue, spinta da Francia e Germania. Ma davanti ai venti capi di stato e di governo si presenta un ostacolo che difficilmente riusciranno a rimuovere. La condizione della ripresa è il risanamento e la riforma del sistema bancario. Un crack grave, ma limitato come quello dei subprime, è diventato collasso sistemico per colpa delle banche. La debolezza del loro capitale e l’eccesso di rischi assunti, ha creato un “acceleratore finanziario” negativo e ciò resta la principale palla al piede della ripresa.



Meglio non farsi incantare dai facili profitti messi in conto in questi sei mesi, grazie al nuovo boom delle borse e alla compravendita di titoli, per lo più pubblici. La struttura patrimoniale dei colossi bancari è fragile. Il capitale che hanno a disposizione è troppo poco. Aumentarlo è la parola d’ordine che rimbalza tra le sponde degli oceani.

Ma su come e quanto, i principali paesi sono divisi. Gli Stati Uniti spingono per una consistente ricapitalizzazione che punti verso un rapporto tra mezzi propri e impieghi attorno al dieci per cento almeno.

Gli europei sono contrari. E’ vero, le banche del vecchio continente sono sottocapitalizzate anche rispetto a quelle americane, ma queste ultime hanno ricevuto iniezioni consistenti da parte dello stato. In Europa continentale si arrabattano per farcela da sole (vedi Unicredit che sta valutando una ricapitalizzazione di 4 miliardi non attraverso i Tremonti bond, ma direttamente sul mercato). E non si sa se ci riusciranno. I governi europei sono forse troppo sensibili alle grida di dolore dei loro banchieri, ma non hanno torto nel temere che la soluzione americana sarebbe troppo onerosa. Difficilmente si uscirà dall’impasse, a meno di non prendere in esame una riforma più radicale del sistema.



 

A rompere le uova nel paniere ci ha pensato Paul Volcker. Il vecchio capo della Federal Reserve che negli anni di Reagan stroncò l’inflazione e gettò le premesse per uno dei più energici boom del dopoguerra, propone che venga impedito alle banche commerciali, le quali si alimentano con i depositi dei risparmiatori, di operare per proprio conto in borsa e su mercati finanziari troppo ampi, impersonali e pericolosi. Uscire dalla logica del supermercato per passare alle boutique (magari raccolte in spazi comuni), consente di impostare in modo diverso anche la questione del capitale, calibrando i requisiti di sicurezza e le norme di vigilanza in modo diverso a seconda del mestiere svolto e del grado di rischio preso.

 

Si tratta di recuperare la distinzione tra banche commerciali e d’investimento e ai limiti della vecchia legge bancaria, il Glass Steagal Act, abolito nel 1999 quando era al massimo la pressione globalizzatrice di Wall Street. Volcker andrà in Congresso a spiegare in dettaglio la sua proposta dirompente che non trova, per la verità, né il consenso dei colossi bancari che sono usciti vincitori dalla grande selezione (Bank of America, Citigroup, Goldman Sachs, Merrill Lynch, JP Morgan Chase, le cinque sorelle), né dell’amministrazione. Il segretario al Tesoro Geithner è intervenuto mercoledì alla Camera dei rappresentanti per perorare la riforma della regolazione finanziaria che in molti trovano nello stesso tempo confusa e timida. Mentre non si sono spente le polemiche politiche sui salvataggi e il potere discrezionale esercitato dalla Fed e dal Tesoro.

 

Intanto, l’Unione europea ha varato il suo schema di riforma basato su due nuove autorità: il System of Financial Supervisors composto dai banchieri centrali e presieduto da Trichet, presidente della Bce, che rappresenta una sorta di superviliganza continentale; e il Systemic Risk Board presieduto da Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, che deve vegliare sugli equilibri tra borsa e moneta, portando a bordo anche la City. Ma nessuna delle grandi architetture di regole e regolatori è in grado di affrontare il problema dei problemi che, ancora una volta, non sta nella sovrastruttura, ma nel cuore del capitale bancario. Ci vorrà un nuovo G20. Speriamo non una nuova crisi.