Correva l’anno 1976. Tibor Scitovsky, economista ungherese naturalizzato americano, notava come a fronte di un benessere economico e materiale crescente, aumentava l’insoddisfazione per la vita. Il problema dell’economia, scriveva, è che ha “perso la gioia”.
Tutta presa dalla propria missione di rendere gli uomini più ricchi e benestanti, ha dimenticato l’uomo reale. E così l’epoca delle passioni tristi descritta da Benasayag si riflette in una scienza economica ridotta a triste scienza esatta, il cui totem indistruttibile, degno di venerazione e di sconvolgimenti sociali e politici, ha un nome: Prodotto Interno Lordo. O più semplicemente: PIL.
Trentatre anni dopo siamo ancora allo stesso punto. Anzi, siamo messi peggio: perché la scienza economica (nelle varianti micro e macro), sempre più astratta e formalizzata, continua a dimenticare l’uomo reale, quello capaci di pulsioni diverse dal calcolo utilitarista. L’uomo capace di immettere la gratuità nel mercato, come ha descritto magnificamente Benedetto XVI nella sua Caritas in veritate. E l’uomo capace di “desideri socializzanti”, secondo la felice intuizione del premio Nobel Kenneth Arrow. E intanto anche l’economia reale perde i colpi, va in crisi per eccesso di virtualità finanziaria, mentre l’economia teorica non riesce più a capire, spiegare, predire e correggere.
Proprio per questo qualcosa sta cambiando. La proposta-choc di Nicolas Sarkozy (e della commissione da lui nominata appositamente e capitanata da Joseph Stiglitz) è ormai nota: mandare in soffitta il vecchio PIL (che considera solo il valore dei beni e servizi prodotti all’interno di un Paese) per sostituirlo con un più articolato “indice di benessere della popolazione” (da qualcuno già ribattezzato “indice di felicità”), che tenga conto di tutto ciò che rende piena e degna la vita degli uomini: relazioni famigliari e sociali, opere di volontariato, ecologia, sicurezza, salute.
L’idea ha il gusto della provocazione ma (questo è il punto) non è per nulla campata per aria. Dal 1993, per esempio, l’ONU utilizza un “indice di sviluppo umano” per cogliere le differenze tra il mondo occidentali e gli altri mondi. Ammettendo implicitamente l’incapacità del PIL di cogliere elementi sostanziali della vita sociale. Ma è in ambito accademico che i sostenitori della felicità in economia si sono riprodotti in questi anni. Riviste di gran pregio si dedicano al tema “eretico” della felicità in economia (The Economic Journal e il Journal of Economic Behaviour and Organization) e addirittura ne è nata una specificamente dedicata agli “happines studies”.
E poi valanghe di siti internet, articoli, libri, cattedre a tema. Siamo di fronte a una vera novità culturale, che diventa rivoluzione se si pensa al modo in cui l’economia moderna, utilitarista, ha trattato questi argomenti, relegando la felicità nel privato. Richard Layard, della London School of Economics ha proposto sette componenti per decifrare la felicità sociale: lo stipendio, certo, ma anche il tipo di lavoro svolto, il livello di salute, il grado di libertà, le relazioni personali, la situazione della propria vita privata, la presenza di valori morali che guidino l’esistenza. Come dire: si è felici se si ha una vita affettiva stabile, se si vive un’esperienza religiosa, se si è al centro di un’intensa vita di relazioni. Al contrario, si è infelici quando ci sono tanti divorzi, quando il lavoro è instabile, quando trionfa il nichilismo e quando la sanità non è garantita. Tutte cose più o meno note a sociologi e psicologi.
Ce n’è abbastanza per ribaltare il giudizio comparativo non solo rispetto alla Cina (dove il PIL cresce da anni a ritmi vertiginosi, al prezzo di un’indicibile devastazione umana, sociale ed ecologica), ma forse anche degli States.
In Italia, il cuore della riflessione sull’economia della felicità è il Dipartimento di Economia della Bicocca, a Milano, dove nel marzo 2003 si è svolto anche un convegno internazionale sul tema “I paradossi della felicità in economia”, che ha messo insieme tutti i nomi più importanti della disciplina. Proprio in Bicocca insegna Luigino Bruni, che insieme a Stefano Zamagni ha contribuito massicciamente alla diffusione di questi temi nel nostro Paese. Mentre all’Università della Calabria lavora un altro economista, Pierangelo Da crema, autore del pamphlet il cui titolo parla da solo: “La dittatura del PIL: schiavi di un numero che frena il benessere” (Marsilio).
L’economia dunque si interroga, e l’ipotesi di sostituire l’economicista PIL con il più sociale e “benesserista” FIL (felicità interna lorda) appare come qualcosa di più di un’ipotesi accademica, mentre si accende il dibattito tra sostenitori (in Italia su tutti spicca il pro-rettore dell’Università Cattolica, Luigi Campiglio) e detrattori (tra gli altri l’economista Giulio Sapelli). L’idea che lo sviluppo e la felicità non dipendano più dai fattori produttivi, dalle ricchezze prodotte e dai consumi, dal livello del Prodotto interno lordo o da quello della busta paga, trova sostanza nell’attenzione alla formazione del “capitale umano” e alla riproduzione di quel “capitale sociale” necessario per la crescita personale e civile, prodotto innanzitutto dalle famiglie, dalle organizzazioni del terzo settore, dalle scuole (statali e no).