Dalla Germania, grazie al cielo, sono giunte buone notizie. La coalizione nero-gialla pare intenzionata a non perdere tempo e questo non può che renderci ottimisti per quanto riguarda i nodi che Berlino deve sciogliere e in fretta prima di ritrovarsi in piena recessione con l’arrivo dell’inverno. La Cancelliera, Angela Merkel, ha subito parlato della lotta alla disoccupazione come priorità del suo governo, ponendo l’accento sull’ipotesi di aumento delle tasse che per ora non viene ventilata a breve.
Non una parola sulla questione bancaria. Certamente i panni sporchi è meglio lavarli in famiglia quindi capiamo la volontà tedesca di non dover ammettere le spericolate operazioni dei propri istituti proprio mentre si fa la morale al riguardo al mondo anglosassone, ma credo che il Fondo Monetario Internazionale dovrebbe assumere un atteggiamento meno malleabile nel richiedere – e in fretta – stress tests in tutta l’Europa continentale.
Ne va della tenuta del sistema, non dell’orgoglio o dell’onore di qualche politico o banchiere. Anche perché ora il problema che si staglia all’orizzonte si chiama credito privato, in fase di contrazione da entrambe le parti dell’oceano. Il dato della massa monetaria M3 sta mandando segnali di una possibile crisi deflattiva per l’inizio dell’anno prossimo in almeno metà delle economie mondiali: anche perché la messe di liquidità gettata sui mercati come stimolo alla crisi ora sta per prosciugarsi e se in Spagna i sussidi di disoccupazione scenderanno a 100 euro la settimana in Estonia toccheranno i 16 euro.
La stessa Germania di cui parlavamo prima sta per dire addio sia al Kurzarbeit, ovvero il sussidio statale alle aziende affinché non licenzino, sia al sostegno diretto che finisce proprio questo mese. Quest’ultimo ha certamente funzionato visto che, ad esempio, le vendite di auto sono salite del 30% in agosto, ma il suo drastico abbandono ha fatto dire al Center for Automative Research che il calo per l’anno a venire toccherà il milione di unità: «Il peggiore della storia automobilistica tedesca». Non è un caso che Sergio Marchionne abbia già parlato di disastro se non si interverrà per sostenere il mercato dell’auto in Italia, anche perché i dati che giungono dall’America parlano di un crollo delle vendite del 40% nel mese di settembre con Chrysler costretta a pagare il prezzo più alto.
Politiche di stimolo, insomma, che come ampiamente annunciato non possono più continuare se non mettendo a grave rischio di default sul debito i governi che le applicano. E poi, nonostante tutto, i dati macro che giungono sono tutt’altro che entusiasmanti: l’export cinese è crollato del 23% ad agosto – anche se abbiamo ampiamente visto come Pechino sia corsa verso una politica di diversificazione – mentre quello giapponese del 36% addirittura. La produzione industriale è scesa del 23% in Giappone, del 18% in Italia, del 17% in Germania, del 13% in Francia e Russia e dell’11% negli Usa.
La capacità di spesa dei privati, poi, è letteralmente crollata sia nel mondo anglosassone che in quello del cosiddetto “Club Med” che nell’Europa dell’Est, ma non è cresciuta a sufficienza nelle aree di surplus – come Germania e Asia dell’Est – per compensare. Ora il rischio è che le banche centrali si troveranno costrette a “monetizzare” i deficit su larga scala se vorranno bloccare una deflazione del debito e certamente non è nei loro piani e nelle loro corde farlo: il problema è che più tempo faranno passare più difficile sarà raddrizzare la situazione.
Con la massa monetaria globale M3 scesa al 5%, la M2 crollata del 12% in agosto, il mercato dei Commercial Paper contratto da 1,6 trilioni a 1,2 trilioni di dollari dallo scorso mese di maggio, con il Moltiplicatore Monetario della Fed di St. Louis sotto quota 0 e la massa monetaria M3 che in Europa si è contratta dell’1% da aprile, c’è poco da perdere tempo se non vogliamo che l’inverno si trasformi nell’incubatrice della deflazione che colpirà il mondo il prossimo anno dicendo addio a tutte le speranze di recupero.
Ma di questo, purtroppo, non si è parlato al G20 di Pittsburgh, ennesima occasione sprecata in una paradossale girandola di trovate populistiche e photo opportunities. Anzi no, un risultato lo ha sortito il vertice e l’atmosfera da caccia alle streghe finanziaria che lo contornava: Brevan Howard, il più grande hedge fund britannico, ha reso noto sabato che aprirà un ufficio in Svizzera, mossa che da molti viene vista come inizio dell’esodo per paura che le restrizioni richieste dall’asse franco-tedesco e la nuova aliquota di tassazione decisa dal governo di Gordon Brown che entreranno in vigore il prossimo aprile devastino del tutto il mercato.
Ma si sa, è più facile mettere il bastone tra le ruote agli hedge fund che intervenire seriamente sulla crisi e sui suoi sviluppi futuri: i quali, dati alla mano, avete notato che non paiono affatto dei più rosei. Per nessuno.