Il rally sembra davvero finito. Il settore bancario sta trascinando al ribasso le Borse e il dato sulla disoccupazione nel settore privato Usa parla la lingua di una continua contraddizione tra segnali di falsa ripresa e la realtà di un sistema che è ben lungi dall’aver superato le secche in cui è andata a piaggiarsi l’economia reale: i mesi di crescita degli indici, al di là dei volumi ridicoli che da soli avrebbero dovuto far capire quanto fossero artificiali i cosiddetti “green shots”, erano nulla più che l’autoinduzione all’ottimismo dettata dai numeri favolosi scodellati da Goldman Sachs e dalla volontà degli hedge funds di speculare – e molto – a breve. Ancora una volta ieri, dall’Asia all’Europa agli Usa, è stato il settore bancario a segnare le flessioni più marcate, sintomo che qualcosa sta per accadere. E quel qualcosa è il G20 di fine mese a Pittsburgh. Dove, leggendo il Financial Times, si parlerà di taglio dei bonus ai banchieri, di mandatory cap sui salari, di exit strategy dalle politiche di stimolo fiscale dal 2010 in poi e altre inezie di questo genere. La questione è uno sola: bisogna scaricare da qualche parte l’immondizia che le banche hanno in corpo. Il problema è dove.



Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale si sono esposti fin troppo, stanno mettendo in circolazione da mesi e mesi liquidità per far ripartire un settore che invece di ripulire gli assets sta tentando di inglobare capitale in riserve e non accenna a voler sbloccare il mercato interbancario e del credito. Se a questo uniamo la bolla delle carte di credito che sta per scoppiare anche in Europa, il quadro diventa davvero fosco. Occorrerebbe una colossale, davvero a livello planetario, operazione di “mark to market” edulcorata per riuscire prima di tutto a capire la reale entità degli assets tossici e in seconda istanza a dar vita a una bad bank sotto controllo del Fmi per fare in modo che i furbetti della finanza creativa la smettano di comportarsi come hedge funds e tornino a fare il loro lavoro, ovvero risparmio e credito. Non succederà, statene certi.



L’Ecofin brancola nel buio e straparla di nuove legislazioni per evitare che le banche, a livello globale, diventino “too big too fail”: il problema è che è inutile e controproducente pensare a come ricostruire la casa se prima non si cerca di spegnere l’incendio in corso. Siamo nei guai e guai seri. Anche perché mentre Europa e Usa si trastullano con queste questioni, la Cina spinge sull’acceleratore dell’autarchia. Un report della Camera di Commercio Ue a Pechino, infatti, mette in evidenza come fare business in Cina per le industrie europee sia sempre più difficile: aperte violazioni degli obblighi del Wto, regolamentazioni ostruzionistiche valide solo per gli europei, intimidazioni, legislazioni arbitrarie sono solo alcuni degli ostacoli che le aziende europee – dalla chimica alla telefonia al settore bancario – devono affrontare. Questo nonostante l’Europa sia un mercato più importante degli Usa per la Cina in fatto di export, visto che le esportazioni verso l’eurozona rappresentano il 7 per cento del Pil cinese: su 171 nazioni prese in esame riguardo la facilità per gli stranieri di fare business, la Cina è ottantatreesima, peggio del Venezuela di Chavez.



Il mercato dell’auto, tanto di moda in questo momento, è esemplificativo: i cinesi possono comprare ciò che vogliono all’estero, possono operare e acquisire mentre un europeo che va a operare a Pechino deve farlo attraverso una joint-venture e non può avere più di due stabilimenti. Se questo non è dumping non si è ben capito cosa lo sia. Forse al G20 bisognerebbe parlare, oltre che dell’ipotesi di bad bank globale, anche di questo: perdere tempo con idiozie come Kyoto e le emissioni gassose, quando la Cina sta diventando sempre più verde e sempre meno dipendente dal petrolio, significa davvero suicidarsi. Attività nella quale l’UE è leader da tempo, tra l’altro. Vedremo come andrà a finire ma questo G20, come gli altri appuntamenti globali tra i grandi leader, rischia di trasformarsi nella solita photo opportunità e in accordi bilaterali presi nei corridoi: al di là del fatto che la tecnologia permetterebbe una bella teleconferenza che farebbe risparmiare miliardi, non è più accettabile che gli stati invochino collaborazione e poi pensino soltanto ai loro interessi. Ovviamente è normale che sia così – business is business – ma di fronte a una crisi del genere o si agisce di concerto oppure i vincitori, ammesso che ce ne siano, festeggeranno sulle rovine. Il vate Roubini, ieri su Cnbc, annunciava che la Cina non trascinerà il mondo fuori dalla recessione: ha ragione, sta infatti lavorando per trascinare fuori solo se stessa e guadagnare la leadership. L’ostaggio Usa e il suo debito non permettono controffensive troppo brusche verso l’unico mercato abbastanza grande da caricarsi sulle spalle bond statunitensi e mantenere in vita il circolo vizioso del deficit federale ma qualcosa va fatta. In fretta. Altrimenti la fine di questa crisi sarà davvero l’alba di un nuovo ordine mondiale. Di cui possiamo, dobbiamo e vogliamo fare a meno.