Nella miriade di suggerimenti per limitare i danni causati dalla crisi, proposti da politici, economisti, imprenditori e banchieri, uno ha suscitato più di altri attenzione e curiosità: quello del ministro dell’Economia Giulio Tremonti che, al Meeting di Rimini, ha lanciato l’idea di rendere possibile, per i lavoratori, la partecipazione agli utili dell’azienda della quale sono dipendenti. La soluzione, di per sé, ha trovato per lo più sostenitori. Divisi, tuttavia, tra le diverse modalità di applicazione. Ecco l’opinione dell’economista Francesco Forte.



L’ipotesi ventilata da Tremonti cavalca un vecchio tema, di cui si parla da un po’ di tempo ma sul quale non si sono mai trovati punti fermi. Le pare che siamo ad una svolta?

Nel codice civile italiano è già prevista una sorta di partecipazione dei lavoratori agli utili, lo strumento esiste. Il sistema delle cosiddette stock option, le azioni senza diritto di voto, si era sviluppato per i manager ma vale per tutti. Per le imprese non quotate esiste la possibilità di legare la partecipazione al merito mediante la contrattazione di secondo e terzo livello. Credo, in ogni caso, che l’ipotesi sarà assunta come prospettiva, ma ci sarà un battaglia ideologica e politica per decidere quale soluzione scegliere.



Quali sono le opzioni in gioco?

Sono principalmente tre: la prima consiste nella possibilità di dare al lavoratore un premio di produttività, misurabile sulla base della produttività del lavoro o sull’utile dell’impresa; la seconda nella partecipazione mediante le azioni. In questa filosofia economica, di matrice soprattutto cattolica, c’è un’idea etico-psicologica: con un numero limitato di azioni il lavoratore non può contare più di tanto in termini di decisioni. Ma si sente, come persona, partecipe, in grado di esprimere un diritto di collaborazione. La terza, nata in ambiente socialdemocratico, nella cogestione reale e fattiva. Il lavoratore è solidale con gli altri lavoratori e pensa che il successo dell’impresa giovi a tutti. E, assieme al manager, decide delle sorti dell’azienda.



Su quest’ultima opzione, la cogestione basata sul modello tedesco di cui tanto si parla, qual è la sua opinione? È un obiettivo realistico?

Il modello tedesco non ha dato buoni frutti. Aveva una sua origine storica nell’esigenza della pace sociale. In Germania il partito comunista, infatti, era fuori legge, esisteva solo nella Germania dell’Est. Nella Germania dell’Ovest si era decise di applicare questo modello per inserire il movimento socialdemocratico nel sistema capitalistico. Era un’esigenza politica dell’epoca. I fautori dell’economia sociale di mercato, tra i fondatori della costituzione tedesca, si dissociarono da questo modello. Erano per la libertà sindacale ma non per la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa. Questo avrebbe inquinato la libertà dell’imprenditore. Un conto è essere e saper fare il manager, altra cosa un lavoratore. Inoltre, questo modello ha favorito lo sviluppo del sistema monopolistico. Il sindacato era diventato interessato alla stabilità del posto di lavoro e al potere unicamente nella grande impresa, perché vi era dentro. E la grande impresa può diventare facilmente oppressiva nei confronti delle altre.

Ha fatto tanto discutere la proposta di Pietro Ichino di istituire un contratto unico nazionale.

La tesi del contratto unico è pericolosissima. Contrasta con la teoria, sostenuta da Cisl e Uil, secondo la quale la contrattazione differenziata permette maggiore libertà, flessibilità e vantaggi, oltre che alle aziende, ai lavoratori stessi. Inoltre, il contratto unico offre maggiori garanzie ma abolisce l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che, a mio avviso, rappresenta un elemento etico-giuridico fondamentale per la loro tutela. Inoltre, non contempla la contrattazione periferica decentrata, che dovrebbe essere presa in considerazione come base e non come punto di arrivo. Credo che la bozza di Ichino sia frutto di una mentalità dirigista che vuole ingabbiare la contrattazione libera in uno schema unico. È sbagliato anche dal punto di vista dei sindacati, limitandone la possibilità di essere protagonisti della vita della aziende.

In Italia, dopo un anno, tornano ad aumentare i prezzi. Come va letto questo segnale? Si temeva una grave deflazione legata alla crisi, ora cosa dobbiamo attenderci?

Dobbiamo attenderci un aumento dei prezzi petroliferi a causa di un mercato altamente speculativo (non è ancora cessata la speculazione internazionale sui derivati), di enormi interessi bancari e del disordine all’interno dell’Opec, con il relativo terrorismo. C’è il rischio, poi, che aumentino i prezzi agricoli, generato anch’esso da operazioni speculative sui derivati e dal disordine dei mercati internazionali. Quest’ultimo rischio, tuttavia, sarà probabilmente limitato dall’alto tasso disoccupazione mondiale.