È blasfemo parlare di privatizzazioni nei locali del governo, a giudicare dalle reazioni, tra la stizza e lo sdegno, dei “mandarini” italiani alla provocazione del fondo americano Knight-Vinke Asset Management.

Knight-Vinke ha proposto di dividere l’Eni in due tronconi: uno dedicato alle attività estrattive, l’altro alla vendita del gas. In mezzo, ci sarebbe la gestione delle infrastrutture, che a loro volta potrebbero essere riaggregate in forma autonoma, soddisfacendo così le richieste dell’Antitrust europeo e dell’Autorità italiana per l’energia. A destare ancor più scandalo è stata l’attenzione riservata dal blasonato Financial Times, che vi ha addirittura concesso un endorsement (per nulla scontato) tramite la rubrica Lex.



Nel merito, l’affondo della società di Eric Knight contro il gruppo di Paolo Scaroni sembra cogliere nel segno. Non solo perché, appunto, offre l’occasione per chiudere i fastidiosi dossier aperti dai regolatori della competizione e del settore energetico, a livello comunitario e nazionale.

Poiché lo “spezzatino” prelude inevitabilmente – e, nelle intenzioni del fondo, dichiaratamente – alla privatizzazione integrale di almeno alcuni tronconi di attività, esso presenta profili di interesse anche per il nostro ministero dell’Economia, che deve fare i conti con un calo del gettito fiscale (causato dalla contrazione del Pil) e dal taglio del dividendo della stessa Eni, deliberato recentemente per mantenere la necessaria solidità finanziaria.



Ma il dato ancora più stupefacente è quello economico: secondo Knight-Vinke (che con l’1 per cento di Eni ne è uno tra i maggiori azionisti privati, sebbene lo Stato ne abbia in pancia il 30 per cento) la separazione farebbe da volano alla performance del gruppo. Infatti, la focalizzazione delle compagnie figlie su core business specifici consentirà di guadagnare efficienza e profitti, con una creazione di valore pari addirittura al doppio del valore attuale.

Nella sua articolata risposta, Scaroni ha contestato questa stima, ma non ha messo in dubbio la creazione di valore. Del resto, tutti hanno sotto gli occhi la vicenda di British Gas, che fu divisa in tre società distinte (Bg Group, National Grid e Centrica) durante la grande stagione delle privatizzazioni britanniche e ne uscì rafforzata.



Infine, la sottrazione dell’Eni e delle sue propaggini all’influenza della politica, che oggi pesa attraverso la determinante partecipazione azionaria del Tesoro e della Cassa depositi e prestiti, la renderà più credibile e autorevole anche nelle negoziazioni internazionali, al contrario di quanto dicono i sostenitori dello status quo.

L’idea di dividere e poi privatizzare l’Eni è giusta e va nell’interesse di tutti, e del miglior funzionamento del mercato. Purtroppo, però, appare politicamente impercorribile, perché l’Eni, al tempo stesso, influenza ed è influenzata dalla politica. Essa, dunque, costituisce una tentazione quasi invincibile per chi si trova nella stanza dei bottoni. Ci vuole una grande capacità di resistenza per non lasciarsi catturare dal potere, reale o percepito che sia, trasmesso dal controllo di una compagnia tanto grande e ramificata. Ma se il governo prenderà almeno in considerazione questa opportunità, darà una prova di virtù che gli italiani, siano essi contribuenti o consumatori, azionisti o concorrenti, non potranno non riconoscere.