Lo scorso anno non c’era e negli anni precedenti nemmeno. La presenza di uno stand Fiat al salone di Detroit, uno dei più importanti al mondo nel settore delle automobili e il più significativo nel continente americano, è di per sé già un evento. Ma è anche un segnale. Forte. Il gruppo, che fino ad adesso aveva una presenza significativa solo in Italia e in Brasile, ha preso una dimensione mondiale, internazionale.
I marchi, con l’acquisizione di Chrysler, sono raddoppiati, i mercati si sono moltiplicati, e gli interessi si sono, per così dire, “sprovincializzati”. Lo stand al Naias di Detroit è diventato fondamentale nella strategia aziendale anche se ancora Fiat non vende un’auto oltreoceano e non ne venderà neanche nel corso di quest’anno. Mentre è diventata molto meno significativa la presenza al Motorshow di Bologna, peraltro disertato da quasi tutti i produttori, in quello che è, o meglio è stato finora, il bacino d’utenza più importante per il marchio italiano.
Il baricentro del Lingotto si è spostato e lo dimostra la presenza quasi costante negli Stati Uniti di Sergio Marchionne, ad di Fiat Group, l’uomo che passa più tempo in aereo di un pilota professionista. Ed è cambiata la prospettiva da cui l’azienda guarda il mondo e se stessa.
Dentro questo quadro va vista la questione degli stabilimenti italiani, come quella, secondo alcuni politici strettamente collegata, dei prossimi incentivi alla rottamazione promessi dal Governo e l’ipotesi, smentita, di una possibile vendita al Gruppo Volkswagen del marchio Alfa Romeo. Fiat è cresciuta e sta lavorando per crescere ancora. E non ha intenzione di fare prigionieri.
L’arrivo su un mercato come quello americano e il controllo di marchi come Jeep che hanno clienti in tutto il mondo, e l’esperienza del fallimento pilotato di Chrysler l’hanno resa più matura ma anche più libera, meno dipendente dagli affari interni italiani. Ora Sergio Marchionne non è più disponibile a fare sconti. In Italia si produrrà se ci saranno condizioni competitive a livello infrastrutturale, di manodopera e di costi.
Per Termini Imerese non ci sarà scampo e forse bisogna cominciare ad aver paura anche per Pomigliano D’Arco. Certo non sarà domani e con ogni probabilità non sarà neanche un cambiamento traumatico, visti gli ammortizzatori sociali che possono essere messi in campo e le proposte di acquisto che sono alle viste, ma l’era delle cattedrali nel deserto, volute dalle imprese per raccogliere fondi pubblici e dai politici per raccogliere voti, è finita, almeno per Fiat.
E non servirà a nulla insistere sullo scambio “incentivi contro occupazione”, perché questa è sempre stata un’arma spuntata e, adesso che Fiat produce solo un sesto dei suoi prodotti in Italia, lo è ancora di più. Gli incentivi alla rottamazione permettono da una parte all’erario di incassare un gettito Iva significativo che compensa in larga parte l’esborso statale, e dall’altra di svecchiare un parco auto che è tra i più anziani e inquinanti in Europa.
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Inoltre, dei contributi alla rottamazione non ne beneficia solo Fiat, ma tutte le case automobilistiche che operano in Italia. Come del resto il Lingotto ha beneficiato di misure analoghe prese in Francia, Germania e Inghilterra. Non si possono collegare in alcun modo gli incentivi alla produzione in Italia, perché l’Ue boccerebbe, a ragione, l’iniziativa.
L’unico modo per aumentare la produzione di auto nel nostro Paese, che per fortuna può vantare una rete di aziende dell’indotto di primissimo livello, è agire sulle infrastrutture, sul costo del lavoro e sulla fiscalità. Come fanno gli altri Paesi europei. Altrimenti bisogna essere disposti ad aprire il portafoglio come hanno fatto la Germania per sostenere Opel, gli Usa per Gm e Chrysler, e la Francia che oltre ai finanziamenti pubblici alle aziende del settore ha ancora il 15% delle azioni di Renault nelle mani dello Stato.
In Italia non si è parlato di finanziamenti diretti né lo scorso anno, né nel 2004, quando Fiat ha rischiato seriamente il default e la chiusura. L’azienda, da allora, è stata gestita dal nuovo management che in meno di cinque anni l’ha portata dall’orlo del fallimento alla ribalta mondiale, con il controllo di Chrysler e gli elogi del presidente americano Barack Obama. Un’operazione del genere non può essere fatta senza cambiamenti radicali, che forse sono solo all’inizio.
In ballo adesso c’è persino il futuro di Alfa Romeo, l’unico dei marchi del Lingotto che ancora non riesce a trovare la sua dimensione. Dopo aver cambiato tre amministratori delegati, Marchionne a Detroit ha lanciato un messaggio: «Alfa non è in vendita, ma dobbiamo ridimensionarne le aspettative» ha detto «e farla ripartire da una base solida».
Parole che attestano come la superiorità nel segmento dei marchi tedeschi non sia in discussione e la necessità di trovare uno spazio di mercato nuovo per il Biscione. Andando oltre il suo passato, se necessario. «Tutti» ha affermato l’ad di Fiat Group «ci siamo innamorati di una certa storia dell’Alfa, ma…». Gli investimenti devono rendere, aggiungiamo noi. Quasi una novità per Fiat.