«Non possiamo permetterci un 2010 a crescita zero o poco sopra. Non basterebbe a farci recuperare la crescita perduta nell’economia ma, soprattutto, potrebbe allargare la fascia del disagio nella società. Con effetti negativi di ogni genere». A dirlo a ilsussidiario.net è Corrado Passera, Ceo di Intesa Sanpaolo, che in questa lunga intervista affronta i temi della crisi, dell’impresa, delle riforme, della coesione sociale e del bene comune. Sullo sfondo, la lezione di Julián Carrón La tua opera è un bene per tutti.
Ci siamo lasciati alle spalle un anno cruciale. Quali sono le sue aspettative per il 2010?
Credo che nel 2009 tutti – autorità monetarie governi, istituti di credito – abbiano fatto la loro parte, e che il sistema abbia reagito con successo nell’affrontare una crisi finanziaria senza precedenti. Ora si tratta di far di tutto per rafforzare la ripresa economica, che nel dopo-emergenza tende ad essere molto, troppo fiacca. Non possiamo permetterci un 2010 a crescita “zero-virgola”.
Segnali di crescita però ci sono.
Ma con lo zero-virgola non recuperiamo né l’occupazione né la crescita persa. La crescita dell’Asia non è ancora in grado di compensare la crescita non sufficiente di Usa ed Europa. D’accordo, abbiamo affrontato piuttosto bene l’emergenza, ma non possiamo permetterci in alcun modo di rimanere fermi. La sindrome dello zero virgola non basterebbe a farci recuperare il nostro ritardo di crescita nell’economia, ma soprattutto allargherebbe la fascia del disagio, nella società. Con effetti negativi di ogni genere.
Teme per la tenuta sociale del paese?
Vedo un rischio di grande disagio sociale, che dobbiamo fare di tutto per evitare. L’idea cioè che in Europa ci siano 25 milioni di disoccupati , e quindi forse 50 milioni di persone a rischio se includiamo anche i sotto-occupati, deve essere la nostra ossessione. Il nostro paese per ora con i meccanismi opportunamente messi in atto ha attutito o rimandato in certi casi il problema. Ma se non riusciamo ad aumentare in modo serio la crescita, una disoccupazione ben più grave di quella attuale potrebbe essere dietro l’angolo.
Facciamo un passo indietro e torniamo alla causa dell’attuale situazione. Che cosa ci insegna la crisi più grave degli ultimi settant’anni?
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Certamente in alcuni paesi la mancanza di regole e di buon senso nel campo della finanza è stata esiziale. Se gli Usa avessero avuto, per fare un esempio, le regole italiane, sull’indebitamento o sulla speculazione tra attivi e passivi o sulle passività fuori bilancio, la crisi non ci sarebbe stata. Anche il nostro sistema di supervisione e controllo si è dimostrato molto più solido di quello di altri paesi che di solito ci fanno la lezione su tutto. E questo solo per quanto attiene la sfera delle regole, che non esaurisce un problema vasto e complesso.
A che cosa si riferisce?
Taluni assunti ideologici su cui erano basate le politiche e i comportamenti – la convinzione, ad esempio, che i mercati tendano automaticamente all’equilibrio, o che il prezzo di mercato sia sempre significativo – si sono dimostrati fallaci. Le debolezze del sistema di governance delle public companies anglosassoni con il collegato problema dei bonus assurdi, l’insostenibilità geopolitica dei grandi disequilibri nel commercio internazionale e degli sbilanci risparmio-consumo nelle varie parti del mondo, sono tutte lezioni mai poste prima con tanta chiarezza. Sapremo comportarci di conseguenza?
Il 14 settembre scorso, in un’intervista su La Stampa lei fece un primo bilancio della crisi a un anno di distanza dal crac di Lehman. In quel periodo le banche erano al centro delle polemiche per la stretta del credito. «Il credito – le disse – non può però sostituire la crescita».
Il credito serve per finanziare progetti, fatturati e investimenti, può aiutare ma non può sostituire la crescita dell’economia. Per questo dico che se il mercato non ha la forza, da solo, di rimettere in moto l’economia, bisogna supplire con iniziative di sistema, utilizzando le poche risorse disponibili per stimolare l’economia nel breve e costruendo competitività nel medio periodo. E siccome il nostro paese ha ad esempio un grande ritardo nelle infrastrutture, investire in strade, porti, reti di telecomunicazioni, termovalorizzatori, acquedotti, ecc. immetterebbe ricchezza nel sistema e lo rafforzerebbe strutturalmente.
E i conti pubblici?
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I conti pubblici sono un’assoluta priorità ma si possono mettere in campo grandi opere anche senza mettere a rischio i conti pubblici: mobilitando soldi privati, soldi europei, soldi già stanziati e non spesi. Le soluzioni in molti casi ci sono. Ci sono, per esempio, molte opere in grandi città che possono essere finanziate da dismissioni di patrimonio pubblico. Spingere in questa direzione può compensare la mancanza grave di altri tipi di domanda e dare ossigeno all’economia. Se non ci inventiamo qualcosa potremmo trovarci con un 2010 molto complicato, perché ci sono tante imprese che stanno finendo le riserve.
In una recente lezione ad una platea di imprenditori di tutte le parti del mondo Julián Carrón, presidente di Cl, ha criticato l’individualismo teorico e pratico come presupposto culturale del momento che stiamo vivendo. Ma è un errore, dice, pensare che il nostro bene possa essere conseguito in antitesi a quello degli altri, perché la nostra natura di uomini è carità. Qual è la sua opinione?
Veniamo da un periodo basato sulla convinzione ideologica che il bene comune sia originato dalla contrapposizione di interessi personali. Ma è stato – almeno in parte – un errore, perché le società si tengono insieme anche e, soprattutto, se c’è condivisione di responsabilità e non soltanto attraverso contrasto “produttivo” di interesse. Allo stesso modo ipotizzare che il comportamento dell’imprenditore sia mosso esclusivamente dalla massimizzazione del proprio profitto è fortemente riduttivo. Molti imprenditori che hanno fatto la fortuna propria e delle loro comunità sono imprenditori mossi dalla creatività, dal coraggio, dalla volontà di costruire qualcosa di importante nel lungo periodo insieme a un gruppo di collaboratori sempre più grande. Certo l’incentivo del guadagno è fondamentale, ma in molti casi per molti grandi imprenditori un incentivo ancora più forte è stata la forza del loro progetto.
Anche in una fase di grave crisi, che obbliga tutti a fare economia di forze e a fare i conti con le risorse disponibili?
Le economie e le società più solide sono non solo quelle dove c’è più competitività, ma quelle che hanno saputo sviluppare anche coesione solidarietà e tenuta sociale. Nei momenti di crisi la tenuta sociale è messa sotto grave stress, anche perché meno crescita vuol dire meno risorse e ciascuno tende ad arroccarsi e a difendere le rendite che come gruppo, categoria o corporazione ha consolidato nel tempo. Il compito della buona politica è quello di riuscire a evitare quest’involuzione, che alimenta la contrapposizione sociale, indebolisce la fiducia e rallenta ulteriormente la crescita.
«Come può fare l’uomo – dice Carrón – a sostenersi in una positività e in un ultimo ottimismo – perché senza ottimismo non si può agire-? La risposta è: non da solo, ma coinvolgendo con sé altri». È d’accordo?
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Se pensiamo ai progetti di successo nella vita di ciascuno di noi, quasi sempre – se non sempre – li abbiamo realizzati insieme ad altri, non da soli. L’impresa ha una sua necessaria dimensione individuale di concorrenza “contro” le altre imprese, ma sempre più vediamo che tante cose si riescono a fare soltanto a livello di settore e di distretto, o addirittura a livello di paese. La produttività e la competitività delle imprese dipendono per una grande parte da fattori di sistema: dalla logistica all’energia, dalla formazione alla giustizia.
Ma il nostro è anche il paese cui si rimprovera sempre di non riuscire a pensare in grande, quello per cui non si riesce a capire se il piccolo sia un vizio o una virtù.
L’imprenditorialità diffusa è una fonte di energia pervasiva che altri paesi non hanno e che noi dobbiamo saper valorizzare al meglio rendendo più facile fare impresa in Italia. La dimensione delle aziende non è di per sé una garanzia di successo – e infatti ci sono ottime aziende in tutte le categorie dimensionali – ma è altrettanto certo che sotto una certa dimensione non si riescono ad attivare fattori chiave di successo quali l’innovazione o l’internazionalizzazione. La rete può in parte supplire.
Cosa bisogna fare?
Il fisco dovrebbe premiare di più chi patrimonializza, dovrebbe favorire gli imprenditori che mettono insieme le loro aziende, chi investe in innovazione. Attualmente troppe leggi dal punto di vista giuslavoristico, contabile, amministrativo, fiscale di fatto “premiano” solo chi rimane piccolo. Occorre cioè anche rimuovere gli incentivi negativi alla crescita dimensionale e favorire in tutti i modi la creazione di aziende che abbiano le dimensioni sufficienti per svilupparsi sul mercato che sarà sempre più globale.
L’economia del dopo crisi ha bisogno di più o meno regole?
Le regole non basteranno mai, se il presupposto è quello dell’homo homini lupus, come dice Carrón nel suo intervento, cioè se siamo solo individui in guerra l’uno contro l’altro. Vale per la società e vale per il mondo economico e finanziario. Ma è anche vero che buone regole fanno la differenza e lo abbiamo toccato con mano anche nella recente crisi: alcuni sistemi che avevano regole non buone sono crollati, altri hanno tenuto molto meglio. Le buone regole hanno però sempre bisogno di controlli efficaci.
Quello che però vale per la convivenza sociale vale anche per l’economia, o no?
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Regole e controlli possono fare la differenza nei meccanismi dell’economia, ma non possono sostituire la responsabilità personale, se è questo che intende. I rapporti tra persone, quelli economici, e ancor di più quelli sociali sono fatti di corresponsabilità e non possono certo essere ridotti a regole e controlli. Tutti dobbiamo sentirci corresponsabili di tutto. È una lezione che va dal famoso melete to pan (curatevi del tutto, ndr) di Periandro fino alle encicliche sociali di Giovanni Paolo II, ma che tendiamo a dimenticare. È bene che Carrón lo abbia ricordato.
Corresponsabili di tutto: è possibile?
Mettiamola così: non possiamo essere indifferenti a nulla di ciò che succede intorno a noi. Dobbiamo sentirci parte del tutto. E non basta far bene il nostro mestiere e occuparci delle persone più vicine – che è già un merito – per considerarci del tutto soddisfatti.
«Più è reale la sensazione di essere perno di tutto quello che mi sta intorno – ha detto su queste pagine un imprenditore italiano, alla guida di un gruppo leader di mercato – più mi sento alla mercé di avvenimenti e cose verso le quali non posso nulla». Che ne pensa?
Tutte le cose umane, e certamente quelle dell’economia e dell’impresa, hanno una componente di imprevedibilità che non si può eliminare. È un errore pensare che con il calcolo si possa eliminare l’imprevisto. Una delle grandi lezioni della crisi, per chi si era fatto prendere da quest’illusione, è stata proprio questa: che il rischio non è mai completamente eliminabile. Rischio non è però solo qualcosa da temere. Rischio è anche apertura, novità, andare oltre. Ma per fare del rischio una opportunità – come molti imprenditori di tutti i settori, sia profit che non profit, dimostrano – ci vuole creatività e coraggio.
Oggi secondo lei serve più etica o più educazione?
Il funzionamento di sistemi complessi come quelli nei quali viviamo hanno bisogno di competenze sempre più sofisticate. E questo ci porterebbe a parlare di scuola e di meritocrazia. Ma sistemi e competenze sono strumenti che devono servire fini e valori che appartengono alla sfera dell’etica.
(Federico Ferraù)