Obama fa scuola. Il ministro delle Finanze svedese, Anders Borg, ha proposto all’Ecofin di «discutere la possibilità di introdurre una tassa sulla stabilità» nell’Unione europea, sul modello di quanto fatto dagli Stati Uniti. «Il sistema finanziario dovrebbe pagare per i costi reali che impone alla società e ai contribuenti sotto forma di garanzie statali implicite per le banche con importanza sistemica», ha scritto Borg in una lettera al presidente dell’Ecofin, la spagnola Elena Salgado.
«Una tassa pagata dalle istituzioni finanziarie darebbe un contributo ai nostri sforzi verso il consolidamento finanziario, ma accrescerebbe anche la legittimità delle nostre misure nei confronti del settore finanziario nella pubblica opinione», ha aggiunto Borg, osservando che «inoltre una tassa sulla stabilità aiuterebbe a risolvere il problema delle banche con importanza sistemica e il problema delle “too big to fail” (troppo grandi per fallire) che viene discusso ampiamente in numerosi forum internazionali».
Ovviamente questo non accadrà mai, visto che non siamo nemmeno riusciti a imporre un sacrosanto stress test a livello europeo per le banche continentali, le quali hanno continuato bellamente a nascondere nei bilanci i titoli tossici e a giocare con gli off-balance-sheets come se rimandando la risoluzione dei problemi questi sparissero magicamente da soli.
C’è però un problema ulteriore: Obama, con la sua decisione di chiedere il conto ai giganti di Wall Street, sta giocando una pericolosa mano di poker contro il proprio destino politico. Interpellato dalla Cnbc, Richard Bove, analista della Rochdale Securities, ha infatti definito quanto posto in essere dal presidente Usa «un’espropriazione in stile venezuelano», di fatto accomunando Obama a Chavez e bollandolo di comunismo.
Non è un’accusa da poco negli Usa, tanto più che già la riforma sanitaria ha fatto terminare l’inquilino della Casa Bianca nel mirino degli oppositori con accuse da maccartismo in piena regola. Da almeno dieci giorni diciamo che è in atto una campagna per destabilizzare l’amministrazione Usa, questa è certamente una parte sostanziale di essa.
Il mondo del business più sfrontato non vuole che la crisi diventi l’occasione per porre un argine alla speculazione più bieca e alle pratiche più inaccettabili. Come ad esempio quella di Goldman Sachs, pronta ad annunciare un bonus multi-milionario per i propri dipendenti. Oppure Deutsche Bank, intenzionata ad alzare gli stipendi dello staff. Oppure Citigroup, che festeggia i propri risultati in linea con quanto previsto dagli analisti – una perdita di quasi otto miliardi di dollari, 33 cents ad azione contro i 30 previsti – e dà una spinta alle Borse nonostante il crollo delle revenues: va bene così, sono un mondo a parte e vogliono restare tali.
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Non fatevi abbindolare dalle notizie come vengono vendute: purtroppo la crisi ha reso solo un certo tipo di capitalismo più aggressivo di prima, poiché ne ha esposto i limiti e quindi creato le condizioni per un suo superamento. Obama, almeno così si vocifera a Londra in ambienti finanziari, era pronto a mettere mano alle dark pools e alle contrattazioni over-the-counter, ma qualcuno gli avrebbe suggerito di lasciar perdere: meglio non toccare troppo gli interessi di Wall Street.
La crisi non li ha cambiati, li ha solo resi peggiori. Prendiamo la cronaca di questi giorni. Il Club di Parigi – l’organizzazione che raggruppa i principali Paesi creditori – ha chiesto anche alle altre nazioni di annullare il debito di Haiti, dopo il violento terremoto che ha colpito martedì scorso la capitale Port-au-Prince causando decina di migliaia di morti. «Tenuto conto delle spese finanziarie che Haiti dovrà sostenere per al ricostruzione, il Club di Parigi chiede agli altri creditori di annullare la totalità del debito haitiano», si legge in un comunicato dell’organizzazione, che da parte sua ha già cancellato i 214 milioni di dollari dovuti da Port-au-Prince ai Paesi membri.
Fino al settembre del 2008 il debito estero totale di Haiti ammontava a 1,88 miliardi di dollari: oltre ai Paesi membri del Club di Parigi i principali creditori sono Venezuela e Taiwan. Quel debito non sarà mai annullato: verrà comprato dalle banche, le quali poi gireranno il tutto ai vulture funds – i fondi avvoltoi – pronti a battere cassa, non appena l’impegno internazionale avrà rimesso in sesto il paese, con tassi di interesse da usura. È normale, è sempre andata così. Solitamente, occorre essere onesti, alcuni paesi del Terzo Mondo “meritano” le attenzioni dei vulture funds per far conoscere al mondo regimi di satrapi che vivono nel lusso mentre i propri concittadini muoiono letteralmente di fame nonostante miliardi di dollari di aiuti dei paesi sviluppati, in questo caso però siamo alla speculazione pura su una tragedia: a New York come a Londra, si stanno mettendo in pratica strategia per speculare su quei palazzi sbriciolati dal terremoto.
Certamente non è core business, qualche biliardino per gonfiare le tasche e garantirsi dividendi più alti: i bonus che le banche, d’affari e non, stanno pagando ai loro manager in questi giorni sono immorali allo stesso modo. Non perché chi produce ed è bravo non meriti un riconoscimento, anzi. Ma perché se ci troviamo in queste condizioni lo dobbiamo alle banche, grandi e medie, non certo ai fondi speculativi che sulla crisi hanno gravato per meno del cinque per cento e come loro abitudine non scatenano tempeste ma salgono in giostra a cose fatte, guadagnano e scappano.
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Il fatto che in attesa della trimestrale di Citigroup le Borse stessero crollando e, nonostante le perdite del colosso Usa, il fatto di aver buttato al vento “solo” otto miliardi di dollari le abbiamo risollevate un po’ dovrebbe farci riflettere su un sistema completamente malato: c’è troppa liquidità sul mercato, troppi soldi facili e a basso costo che governi e istituzioni finanziarie devono smettere di pompare, il prima possibile, puntando anche a un graduale innalzamento dei tassi.
La Gran Bretagna pagherà caro, nella seconda metà di quest’anno, la politica di quantative easing disinvolta della Bank of England e anche gli abusi del Tarp statunitense non faranno che portare a logiche perverse come quelle dei bonus accoppiati alle accuse di comunismo ad Obama: il sistema è fuori controllo, o il G20 interviene d’urgenza oppure il peggio potrebbe essere davvero alle porte.
La crisi potrà anche terminare, l’economia globale ripartire ma questa logica che sottende il capitalismo in salsa rapace non farà altro che creare le condizioni per altre crisi: ovviamente, vista la debolezza sistemica, sempre più pericolose.