Anche a voler mantener la mente fredda, non si può certo dire che il primo anno di vita di Cai sia quello che tentano di far passare le roboanti dichiarazioni della dirigenza della compagnia che ha preso il posto di Alitalia.
Le ragioni sono molteplici e partono dal fatto inequivocabile che qualsiasi analisi dovrebbe prendere atto: gli “aiutini” così microscopicamente citati nell’articolo di Juanfran Valerón sono in verità talmente grossi che dovrebbero far sparire qualsiasi giubilo al momento di tirare le somme. Sarebbe come se un centometrista si inorgoglisse di aver vinto una gara nella quale ha goduto di 90 metri di vantaggio sugli avversari. Credo che le analisi dovrebbero essere un tantino più profonde.
Partiamo da un dato: da quando è cominciata la crisi dell’ex compagnia di bandiera, l’informazione è stata ampiamente distorta e, tranne rarissimi casi, la stessa non ha mai indagato sulle cause della debacle, preferendo spesso trincerarsi dietro il comodo capro espiatorio dei (falsi) privilegi dei lavoratori, tattica che ha raggiunto il diapason proprio nel momento culminante dell’intera trattativa con Cai.
Fin dal 2002, un gruppo di dipendenti azionisti capitanati dal Comandante Massimo Gismondi avevano promosso non solo appelli ai vari Ministri del Tesoro, proprietario di Alitalia, ma anche ricerche basate su quello che nessuno si era messo in testa di fare anche perché infinitamente lapalissiano: confrontare le varie voci di bilancio di Alitalia con quelle degli altri vettori europei.
Un dato saltò subito agli occhi: nonostante dal 2002 al 2007 il costo del lavoro passasse da un valore standard in linea con gli altri vettori (circa un 24%) a quello decisamente ultraconcorrenziale del 18%, le spese di organizzazione della compagnia passavano da un 73% a un siderale 94% dei ricavi rispetto a una media del 63% delle altre compagnie.
Cifra che rivelava un dato ancora più sconvolgente, perché questa differenza, in media del 25%, significava circa 1.000 milioni di euro annui letteralmente buttati dalla finestra. Anche se il load factor di Alitalia era superiore a quello di diverse linee aeree (British e Iberia per esempio) e quindi il “ prodotto “Alitalia non fosse da buttar via.
La domanda lecita da porsi è se l’intera operazione Cai a questo punto rappresentasse l’unica soluzione al problema. O piuttosto, come sostenuto dalla maggioranza degli analisti, non sia stata una manovra atta a salvare un vettore privato destinato inevitabilmente a sparire (AirOne, i cui conti erano tutt’altro che floridi e soprattutto aveva un load factor tra i peggiori nel continente) a spese dello Stato, come dichiarato da un esponente della CdL in una trasmissione televisiva.
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Si, perché in altri Stati, di fronte a problematiche del tutto simili a quella del vettore italiano, si sono intraprese soluzioni positive alquanto differenti anche dal lato sociale. Il vettore Israeliano El-Al nel 1999 ha deciso di porre alla sua guida un manager Italiano (Michele Levi), già Console onorario a Tel Aviv, che senza operare un solo licenziamento né tagli di salario, ha operato in maniera decisa sulle spese faraoniche o inutili.
Il tutto in stretto contatto non solo con le organizzazioni sindacali, ma con i propri dipendenti attraverso quel dialogo continuo molto simile a quello che qualche lustro prima il compianto Carlo Verri voleva intraprendere in Alitalia. Risultato: pareggio dei conti in due anni e bilancio con record mondiale di profitti nel 2006. Dopo si è proceduto a una proficua privatizzazione.
Discorso simile anche in Air France, che nel 1991 era al limite della chiusura: le violentissime proteste dei dipendenti, che praticamente chiusero lo spazio aereo francese per 15 giorni, e una stampa più attenta a inquadrare le problematiche del vettore che non chilometriche interviste a passeggeri ovviamente delusi dai disservizi, provocarono un ricambio netto dell’intero management e, seppur con un taglio di circa 4.000 dipendenti su oltre 84.000 (in maggioranza lavoratori vicinissimi al limite pensionistico o con contratti a tempo determinato), in breve la compagnia transalpina iniziò il decollo che l’ha portata al suo ruolo di leader mondiale, in eterna fase di privatizzazione (che per il momento non c’è).
Il punto focale è che, con un grande margine di sicurezza, in questa vicenda si può parlare di uno Stato italiano privo di qualunque volontà e capacità di intraprendere un’azione seria, forse considerando Alitalia come un soggetto più conforme alla soluzione di problematiche politiche (basta ricordare l’intera faccenda Malpensa per rendersene conto, per non parlare di altri sprechi) che commerciali (fornire al Paese un valido servizio di trasporto aereo).
Non starò qui a ripetere la cronistoria dei fatti accaduti, ma solo a ricordare le oltre 10.000 persone (su 22.000) escluse dal ciclo lavorativo, di cui solo una minoranza in possesso dei requisiti pensionistici, dato che i più, alla fine dei quattro anni di una cassa integrazione che presenta mille problemi, si troveranno in piena età lavorativa ma ormai fuori dal perimetro della nuova azienda. Questo perché, contrariamente a quanto dispone la legge italiana, un decreto ad hoc non obbliga Cai ad attingere dal bacino di Cassa integrati dell’ex Alitalia. Poi queste persone entreranno in mobilità, fatto che a più di 40 anni risulta poco proficuo per re-inserirsi nel mondo del lavoro.
Ma neanche gli assunti in Cai fanno salti di gioia, dato che, ad esempio, il personale navigante di cabina, vista la scarsità di risorse, opera su turnazioni al limite dello stress psicofisico, dove molti hanno già superato il monte ore massimo di volo secondo le norme internazionali; ma tanto non c’è problema, visto che i voli possono essere operati con equipaggio incompleto. E qui emerge anche la grossa incapacità delle organizzazioni sindacali firmatarie che hanno di fatto avallato attraverso la loro firma contratti francamente improponibili in un settore molto particolare come quello dei naviganti aerei che “godono” di una attività particolarmente stressante.
Viene quasi spontaneo chiedersi come mai le altre compagnie aeree non optino per un impiego simile all’attuale di Cai. Forse perché gli altri vettori dimostrano un’esperienza più ampia e considerano il loro personale una risorsa interna anziché “materiale umano”, definizione coniata dall’attuale Amministratore delegato Rocco Sabelli durante un incontro svoltosi, in piena trattativa contrattuale nel 2008.
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Ci sono poi altri diritti che continuano a non essere rispettati, come quello dell’astensione dal lavoro notturno per le madri di famiglia e, grazie al sistema multibase attuato da Cai, quello della sostanziale “separazione” dei genitori dai loro figli.
Quello che si è cercato di sintetizzare in questo articolo può essere più ampiamente approfondito sia dalla visione della pellicola “Tutti giù per aria” che dalla lettura del libro “L’aereo di carta”, ambedue usciti di recente in un cofanetto che li raggruppa per conto di Editori Riuniti.
Per finire giova forse ricordare come nel 2007 la vecchia Alitalia avesse un bilancio con un passivo di circa 310 milioni di euro e un risultato del terzo trimestre di quell’anno quasi in pareggio, benché navigasse con uno Stato contrario, non in un regime di monopolio sul traffico nazionale, con una flotta e un numero di dipendenti decisamente superiore all’attuale Cai, che nonostante i vari “little helps from my friends” ha raggiunto nel suo primo anno di vita risultati non dissimili, anzi addirittura più bassi se consideriamo un load factor basato su di una flotta decisamente inferiore, come ripeto, a quella della vecchia Compagnia di bandiera. Certo, il costo del lavoro si è ulteriormente dimezzato, ma come abbiamo visto capitava già anche nella vecchia Alitalia.
Un’ultima curiosità: i dati elencati in questo articolo, così come quelli degli studi citati, sono basati sulle cifre fornite dai vari annuari dell’AEA, l’associazione delle Compagnie aeree europee. Ignorati quasi completamente dai media e da gran parte del mondo politico e sindacale a cui erano stati inviati, sono stati ripresi in un editoriale di Piero Ostellino sul Corriere della Sera del 15 novembre 2008.
Il suo articolo si concludeva con la seguente osservazione: «Ho il sospetto che il “caso Alitalia” sia una delle più colossali porcate prodotte nel dopoguerra dall’intreccio fra politica e affari. C’è qualcuno che mi vuol smentire?».
Nessuno ha smentito, anzi l’attuale Commissario Straordinario di Alitalia SpA, Augusto Fantozzi, alla fine della sua relazione sulle cause dell’insolvenza di Alitalia, arrivò alle stesse conclusioni delle ricerche fatte dal Comandante Gismondi dal 2002.