Il ministro dell’Industria spagnolo, Miguel Sebastian, lunedì 18 gennaio ha detto che “vorrebbe maggiore reciprocità da parte dell’Italia” in materia di investimenti. Il ministro parlava in un convegno organizzato per preparare il vertice dell’Unione europea dell’aprile prossimo a Granada nel quale si discuterà un ambizioso piano quinquennale di rilancio delle telecomunicazioni; nel pubblico c’erano i manager dei principali gruppi del settore.



Dunque la sua non era un’affermazione generica, di principio, ma si riferiva a qualcosa di estremamente preciso, concreto e di assoluta attualità: il controllo di Telecom Italia. Il ministro ha precisato di non voler assolutamente interferire in una vicenda che riguarda delle aziende private e i rispettivi azionisti, ma ha aggiunto che si aspetterebbe una maggior apertura da parte del nostro paese nei confronti degli investimenti spagnoli.



Questa dichiarazione, assieme alle voci di un imminente riassetto nella compagine azionaria di Telecom e di un possibile interessamento del finanziere tunisino Tarak Ben Ammar riportate dal Corriere della Sera di sabato 16 gennaio (e smentite dagli interessati), hanno ridato la prima pagina alla vicenda Telecom Italia: una storia che si trascina da tempo ormai, un po’ stucchevole, ma sempre sul tappeto della finanza e della politica, perché ancora tutta da risolvere.

La situazione è nota: il 24,5% di Telecom fa capo alla finanziaria-cassaforte Telco. In questa, il primo azionista è la spagnola Telefonica (42,3%), mentre Mediobanca, IntesaSanpaolo e Generali si dividono le quote restanti (fino a poco fa al loro fianco c’erano anche i Benetton, che però nel dicembre scorso sono usciti).



Questa soluzione multiproprietaria per Telecom Italia era stata adottata nell’ottobre 2007 perché, dopo la decisione di Marco Tronchetti Provera di abbandonare la partita, bisognava trovare un partner industriale al gruppo e allo stesso tempo affiancarlo con un azionariato tricolore per garantire l’italianità. La politica voleva così, perché non si voleva passasse sotto controllo straniero un settore strategico come le telecomunicazioni. Lo stesso principio che ha guidato di lì a poco la vicenda Alitalia-Cai.

È ovvio che gli spagnoli di Telefonica (uno dei principali player mondiali del settore) sono entrati in Telecom per assicurarsi un concorrente e i mercati sui quali ha posizioni dominanti (Italia) o interessanti (Brasile). Ed è altrettanto ovvio che non possono restare in eterno nell’attuale posizione di sleeping partner che lasciano le leve effettive di comando agli azionisti italiani di maggioranza.

Prima o poi vorranno averla loro la maggioranza, fondere le due società e creare uno dei leader assoluti a livello mondiale. Se questo si scontrerà contro resistenze politiche insuperabili, allora potrebbero scegliere di disimpegnarsi e di dirottare le loro risorse finanziarie altrove. Opzione comunque dolorosa, perché l’avventura Telecom è stata un pessimo affare che ha prodotto minusvalenze astronomiche: gli azionisti Telco, nel loro complesso, ci stanno perdendo 5 miliardi di euro.

Ma adesso il problema più che finanziario è politico: a tre anni di distanza dall’avvio della partnership, il sistema Italia ha mutato linea? Oggi è disponibile a far passare il controllo di Telecom in mai straniere? Come ha detto il ministro Sebastian, gli spagnoli se lo aspettano e portano argomenti convincenti: il mercato spagnolo è stato sempre aperto agli investitori italiani.

 

L’Enel possiede Endesa, Mediaset controlla Telecinco e, da poco, anche Cuatro; appartengono a Rcs El Mundo (secondo quotidiano iberico) ed Espansione Marca; ben presenti sono anche altri campioni dell’italico capitalismo dai De Agostini, ai Benetton. E allora, si chiedono in Spagna, perché l’Italia non si comporta allo stesso modo? In passato non lo ha fatto: il Santander e Bbva sono stati bloccati nel loro tentativo di pesare di più in SanPaolo e in Bnl; Abertis ha dovuto rinunciare al suo progetto di fusione con Autostrade. Quindi, è il pensiero di Madrid, sarebbe ora che gli italiani cambiassero registro e accettassero di ammainare il tricolore che da tanto tempo, e con crescenti difficoltà, fanno sventolare sul più alto pennone di Telecom.

 

Domanda: sarebbe un buon affare per il sistema Italia adottare questa linea di apertura e in nome della globalizzazione e del mercato lasciare mano libera a Telefonica? Ma naturalmente no: tutti i grandi Paesi con i quali vogliamo-dobbiamo confrontarci, dalla Francia alla Germania alla Spagna stessa, si tengono ben stretto il controllo di settori strategici che sono dei driver di innovazione.

 

Vuol dire avere i centri decisionali e di ricerca in casa, con tutto quello che significa anche come creazione di posti di lavoro di qualità. Il problema è che l’Italia questa partita l’ha persa già anni fa quando, privatizzando le telecomunicazioni, non riuscì a trovare altri che finanzieri disponibili a investirci. Finanzieri che avevano l’unico obiettivo di realizzare una plusvalenza il più rapidamente possibile.

 

Se si potesse usare la retromarcia nella storia, forse si dovrebbe ripensare tutta la stagione delle privatizzazioni. Ma ormai è andata: il senno di poi non funziona in nessun campo, e meno che mai nella finanza e nel business. Quindi al sistema Italia alla fine converrà fare di necessità virtù: la Telecom tricolore è una finzione non difendibile più a lungo. Tanto vale fare bella figura con gli spagnoli e i mercati. Magari in futuro questa buona condotta potrà dare un ritorno.