La fortuna arride agli audaci? Sergio Marchionne finora è stato la miglior conferma del vecchio detto. Prima nel risanare la Fiat con un colpo di ramazza alla vecchia cultura degli ingegneri (questa è la sua stessa lettura della operazione), poi nel prendere Chrysler con i denari dei contribuenti e dei sindacati americani.
Vedremo se anche l’annuncio improvviso di chiudere per due settimane tutti gli impianti italiani, si rivelerà una mossa ardita e vincente o il suo primo errore tattico. I prossimi giorni ci diranno se si tratta di un ricatto nei confronti del governo per ottenere la fetta maggiore degli incentivi pubblici all’industria (come è successo lo scorso anno) oppure se è il primo segno di resa di fronte a difficoltà che si annunciano insormontabili.
Non arrivano ordini per le auto Fiat, allora si può seriamente dubitare che un’altra rottamazione possa risollevare una situazione tanto compromessa. Il rinnovo del parco macchine non ha una durata infinita ed è direttamente proporzionale al reddito disponibile delle famiglie. Che quest’anno resterà modesto.
L’interpretazione che sia una nuova mano di poker da parte di un coraggioso giocatore, probabilmente è la più realistica. Ma è anche vero che di partite come questa non se ne può più. Parlando martedì a Stoccolma, in una conferenza sul futuro dell’auto, l’ad Fiat ha ripetuto la sua vulgata. L’America sta facendo bene, perché Obama ha fatto sì pagare i contribuenti, ma ha costretto anche a chiudere gli impianti improduttivi.
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L’Europa, invece, sbaglia, perché i governi cercano di salvare tutto e tutti. Vedi la Saab che da quasi vent’anni non chiude i bilanci in attivo e adesso viene ripescata con i quattrini della Bei, la Banca europea degli investimenti.
Dunque, applicando la dottrina Marchionne all’Italia, il governo dovrebbe varare gli incentivi e consentire la chiusura quanto meno di Termini Imerese. E forse anche di altre fabbriche, se è vero che qui con 24 mila dipendenti si producono altrettanto auto di quante ne fanno in Polonia con novemila.
E i lavoratori, e l’impatto sociale? La Fiat se ne lava le mani, ma sindacati e governo non possono. Quindi, la linea dura è destinata a creare un impasse conflittuale e una coda di recriminazioni. Per uscirne non c’è che una soluzione altrettanto radicale.
Si prenda sul serio il manager. Si accetti che esiste un eccesso di capacità produttiva del 25-30 per cento come nella media europea. E il problema nei paesi sviluppati non è più produrre vetture di massa, ma auto di nicchia, sofisticate, ecologiche e via di questo passo.
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Cose che la Fiat non è ancora in grado di fare essendo rimasta troppo a lungo l’ultimo baluardo della catena di montaggio. Se ormai la sua patria è il mondo intero, come cantavano cent’anni fa gli anarchici, bisogna esserne contenti e decidere di conseguenza.
In che modo?
Niente più aiuti statali. Sostegno alle conseguenze sociali della ristrutturazione. Ricerca attivadi investimenti stranieri per produrre macchine di nuova generazione, magari utilizzando anche i capannoni di Termini o quelli che la Fiat libererà.
Incentivi e disincentivi fiscali agli investimenti, per esempio tassando di più gli utili che vengono distribuiti e non investiti. Così chi avrà scelto di fare il rentier o il finanziere (come la famiglia Agnelli) non cercherà di usare i soldi dei contribuenti per rimpinguare i propri portafogli personali.
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Soprattutto, una politica che favorisca l’espansione di altri settori industriali, spinga a crescere la piccola impresa che è stata una risorsa, ma non è detto che lo sarà ancora, favorisca la concentrazione e il consolidamento dei distretti.
Ciò significa penalizzare l’automobile? O snobbarla? Assolutamente. E’ sempre stata una sciocchezza pensare che un grande paese industriale possa tagliare un ramo così importante. Ma l’auto (che purtroppo si identifica con
L’economia italiana deve salire verso l’alto nella catena del valore. In ogni settore. L’assemblaggio si fa altrove, come è giusto che sia, applicando la teoria ricardiana dei costi comparati, la geografia economica e le leggi bronzee della globalizzazione.