Non mi piace recensire i cattivi libri ma quando i cattivi libri godono di un’eco sproporzionata al loro merito, possono fare grandi danni. Ed allora è doveroso contestarli. Quindi questa mia non è una recensione ma una contestazione. Ma il libro da cui prenderò le mosse è anche un pretesto per sviluppare qualche riflessione su un tema fondamentale, come la famiglia.
Nel 2012 la Chiesa organizzerà a Milano un grande incontro mondiale proprio su La famiglia, il lavoro e la festa. Allora è utile incominciare a prepararsi e riflettere su questi temi fondamentali, anche prendendo le distanze da libri come quello di Alberto Alesina e Andrea Ichino dal titolo: L’Italia fatta in casa (Mondadori, 2009) che ha avuto recensioni e presentazioni entusiaste, mentre a me sembra un libro brutto e confusionario.
Il libro parte da una constatazione condivisibile: la famiglia italiana svolge, al suo interno, delle attività che hanno un preciso valore economico che non viene rilevato né dalla contabilità pubblica né dai conti privati. Quindi tale valore non entra in nessuna misurazione della ricchezza delle famiglie italiane. Quindi le famiglie italiane sono sensibilmente più ricche di quanto appaia.
È questo un fenomeno che avviene in tutti i paesi ed è in parte connesso con i limiti propri del Pil che, da qualche tempo, sono sempre più discussi. Ma esistono dati attendibili, che gli autori utilizzano, che dimostrano che il fenomeno è, in Italia, certamente più marcato, soprattutto rispetto ai paesi anglosassoni e del Nord Europa.
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Siamo d’accordo. Ma qui finisce l’accordo. Intendiamoci: il libro contiene numerosi spunti interessanti ed alcuni anche divertenti. Ma è sui temi di fondo del libro che, ad esclusione di quello sopra enunciato, il disaccordo è molto forte.
Reputo uno dei mali più gravi del nostro tempo l’economicismo, cioè il tradurre tutto e sempre in termini economici ed econometrici. Questo libro è un bell’esempio di economicismo esasperato, starei per definirlo di economicismo amorale.
Nel tentativo ardito di pesare quantitativamente il valore dell’“Italia fatta in casa”, cioè di tutte le attività svolte in casa (che non compaiono nel Pil) contrapposte alle attività svolte sul mercato (che si presume rientrino nel Pil), il libro si avventura in una serie di stime, tutte incerte e subordinate a condizioni e ipotesi semplificatrici che ne condizionano grandemente il significato.
Se è vero che in vari passaggi gli autori precisano di non voler estendere la tesi del familismo amorale a tutta Italia, in realtà l’intero libro è pervaso e influenzato da una progressione del tipo: in Italia la famiglia conta più che in altri paesi; una delle caratteristiche di fondo della famiglia italiana è il familismo, che spesso assume le caratteristiche di familismo amorale come teorizzato da Banfield; dunque la famiglia è la vera responsabile di tante cose che non vanno in questo paese e che ne marcano l’arretratezza. (Rispetto a chi? Agli Usa, I suppose).
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Con questa impostazione ogni cosa viene rovesciata. L’università italiana è scadente e ci sono troppe università mediocri sotto casa? La responsabilità non è dei ministri e dei professori, ma della famiglia che, preda del familismo, vuole l’università sotto casa.
Gli ammortizzatori sociali per la perdita del posto di lavoro sono insufficienti? La colpa non è dell’ordinamento sociale ma della famiglia che, essendo familista, continua a dar da mangiare ai suoi membri disoccupati, anziché lasciarli morire sulla strada.
Gli anziani restano in casa e vengono accuditi dai figli e soprattutto dalle figlie, invece che essere inviati in una casa di riposo? Il problema non è che mancano strutture adeguate a costi sostenibili ma della famiglia che, preda del più insaziabile familismo amorale, non vuole mollare i vecchi, continua a volere loro bene anche se sono malandati, continua a curarli con l’affetto della riconoscenza, anche se non sono autosufficienti.
Questa famiglia italiana è veramente incurabile, sentimentale e piagnona. Vada un po’ a New York ad imparare come si fa! I giovani stentano ad entrare nel mondo del lavoro e il dio mercato ha trasformato la necessaria flessibilità del lavoro nel più spregiudicato, sfruttatore, irresponsabile sistema di precariato del mondo avanzato? La colpa non è delle imprese e di un sistema economico animato da schiavisti, ma della famiglia che, familisticamente amorale, non butta fuori i bamboccioni precari.
La giustizia non funziona? La responsabilità non è di chi misamministra questa essenziale funzione, ma della famiglia italiana che, nel suo spasmodico familismo amorale, animato da diffidenza verso tutti gli esterni alla famiglia, sovraccarica la giustizia di cause in gran parte inutili. E così via.