E’ molto interessante il dibattito sviluppato da ilsussidiario.net attorno all’ultimo libro di Alberto Alesina e Andrea Ichino L’Italia fatta in casa. Per riprendere il dibattito occorre, a mio avviso, entrare nel merito del libro che è tanto più interessante dopo le parole del Papa che invita a non fidarsi delle previsioni di maghi ed economisti. Vediamo perché.
Sintetizzando brutalmente, la traiettoria del ragionamento dei due autori è che l’Italia cresce poco rispetto agli altri Paesi anche perché molte delle attività che in altri Paesi sono affidate al mercato (cura dei figli, dei genitori anziani, della casa, ecc…) vengono svolte dalle famiglie. E, in particolare, dalle donne. Se si vuole ottenere, quindi, un aumento del Pil e “liberare” le donne dal lavoro domestico, bisogna defiscalizzare il salario femminile. In questo modo si ottiene l’effetto di affidare al mercato quelle funzioni che oggi sono sulle spalle di mogli e compagne dato che “quando una famiglia è unita come quella italiana diventa molto più semplice e conveniente produrre beni e servizi in casa, anche quelli che potrebbero essere acquistati sul mercato” (pag. 17).
Gli autori rilevano due possibili controindicazioni al maggiore impegno femminile “fuori casa”: una possibile diminuizione della natalità e un probabile aumento dei divorzi. Ma entrambe sono poco rilevanti: “E quand’anche ci fosse un effetto negativo sulla natalità, rimane da dimostrare che questo non sia un bene data l’altissima densità di popolazione in Italia” (pag. 87). E se una maggiore indipendenza economica delle donne causasse “un aumento del tasso di divorzio non è detto che sia un male” perché sarebbero divorzi economicamente parlando, “tra pari” (pag. 88).
Alla obiezione che il risultato di “liberare” le donne dai lavori “forzati” in casa si otterrebbe aumentando, ad esempio, il numero degli asili nido, Alesina ed Ichino rispondono che “gli asili pubblici non sono gratis” ma vengono pagati con le tasse “quindi anche da chi il servizio non lo usa” (pag. 79). “Pensare che la posizione della donna nella forza lavoro in Italia dipenda dalla scarsezza o dall’abbondanza di certi servizi pubblici come gli asili nido è una scappatoia per non affrontare la causa vera, ovvero la cultura della famiglia” (pag. 92-93).
Ma la famiglia ha anche altre “colpe” la più importante delle quali consiste nel fatto che impediscono una ottimale allocazione delle risorse intellettuali dei figli: “Se non esistessero i costi di mobilità e i legami familiari fossero deboli, le persone si sposterebbero dove c’è il lavoro migliore per loro e quindi gli abbinamenti (sic) tra lavoratori e imprese sarebbero ottimali” (pag. 125). E invece “i legami familiari aiutano a trovare lavoro ma perpetuano un’immobilità occupazionale intergenerazionale inefficiente ed iniqua” (pag. 21).
Ed è sempre la famiglia ad aver modellato (in peggio) il sistema universitario: “La maggioranza degli italiani preferisce un’istruzione magari mediocre in cambio di una famiglia geograficamente unita (da qui il proliferare di Università “vicino a casa”, ndr). Il costo di questa preferenza è la bassa qualità della didattica e della ricerca di molti atenei e del sistema universitario italiano nel suo complesso” (pag. 112).
Fin qui le tesi del libro. Da qui in poi le mie considerazioni, le prime tre di carattere generale.
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1 – L’adorazione del feticcio del gigantismo economico è una delle cause della crisi che stiamo vivendo perciò la lezione che dovremmo trarre è che la rincorsa alla crescita del Pil a tutti i costi non è esattamente quella che si può definire una buona idea.
2 – Il libro è l’ennesima dimostrazione di come per una certa scienza economica tutte le attività umane devono rientrare all’interno del mercato. Che le donne si occupino dei figli (al di là del fatto che siano o meno “costrette”) è, per gli autori, sabbia gettata nei suoi ingranaggi.
3 – Gli autori tralasciano di ricordare il fatto che se l’Italia ha resistito meglio di altre nazioni alla crisi lo si deve esattamente alla famiglia che ha garantito al Paese risparmio, coesione sociale e sostegno ai più deboli. Visto come è andata, prima di sostenere che la famiglia è uno dei colpevoli della scarsa crescita bisognerebbe pensarci due volte.
4 – La tesi secondo la quale è ingiusto costruire nuovi asili perché graverebbero sulla fiscalità generale è semplicemente ridicola. Seguendo questo ragionamento le carceri dovrebbero essere finanziate dai reclusi, la sanità solo dagli ammalati e i costi della politica solo da chi esercita il diritto di voto.
5 – Sostenere poi che sempre la famiglia sia colpevole della scarsa propensione alla meritocrazia perchè essa tende a promuovere solo chi rientra nel suo circolo a prescindere dal merito (il cosiddetto “familismo amorale”) è un’altra tesi da maneggiare con moltissima cura. Se il figlio di un avvocato ha ottime probabilità di fare l’avvocato la colpa non è del padre che lo promuove, ma nella struttura di accesso al lavoro di avvocato che non dà le stesse opportunità al figlio dell’impiegato postale. Non è la famiglia a impedire una puntuale “allocazione ottimale delle risorse”, ma l’organizzazione fatta a “caste” della società.
5 – Riguardo alle università. Gli autori sostengono che sono troppe e di scarsa qualità perché le famiglie vogliono i figli vicino e quindi votano quei politici che garantiscono l’università “sotto casa” (pag. 112). Se questo è il problema allora, abolendo il voto popolare, le università diminuirebbero e la qualità aumenterebbe. Forse il problema ha più a che fare con clientelismo e assistenzialismo, non con il “familismo amorale”.
6 – Solo un accenno al tema della bassa natalità che Alesina ed Ichino non vedono come un problema. E’, al contrario, uno dei problemi più drammatici con i quali l’Italia dovrà fare i conti nei prossimi decenni.
7 – Resta infine un’altra tesi. Il connubio tra il reddito “certo” del padre e la disponibilità della donna a lavorare in casa fa sì che “l’attuale struttura della società italiana, con la sua particolare articolazione del rapporto tra famiglia e mercato, non è sempre efficiente” infatti “se in una famiglia italiana il padre perde la certezza di essere occupato nell’anno successivo la probabilità che i figli escano di casa aumenta di oltre il 40%” (pag. 101). Anche qui, la soluzione non può che essere quella di rendere tutti gli italiani (e soprattutto i padri di famiglia) dei precari perenni.
Se questo è il massimo che la cultura economica italiana può offrire al Paese mi pare che non si possa non condividere le parole del Papa.