Lo stato dell’arte. La crisi dell’industria americana della raffinazione offre affari d’oro alle compagnie petrolifere straniere, pronte a fare acquisti sul principale mercato mondiale dei carburanti. Secondo Roger Ihne, analista della Deloitte a Houston, il 5% delle raffinerie Usa è in vendita, quando non in svendita, cioè a dire l’equivalente di 1 milione di barili al giorno di prodotti raffinati. E i potenziali acquirenti dovrebbero provenire da quei Paesi dove la richiesta di carburanti è alta. «Ai prezzi correnti c’è solo l’imbarazzo della scelta. I compratori e i venditori non sono ancora entrati in contatto solo perché lo scenario è troppo incerto».
Ed è per questa incertezza sulle prospettive e sulle politiche energetiche che nel 2009 le operazioni di fusione e acquisizione sono state ridotte ai minimi termini: «Ci sono stati solo 4 accordi nel 2009 e solo uno ha coinvolto un gruppo straniero», ha sottolineato Blake Eskev, vice presidente della società di consulenza Purvin e Gerz. Ma la situazione è destinata a cambiare nei prossimi mesi, avvertono gli esperti, soprattutto se il comparto continuerà ad annaspare e se le dismissioni degli impianti continueranno ad aumentare. La crisi dell’economia e il calo dei consumi di carburanti hanno costretto società come la texana Velero Energy o la Sunoco a pianificare la chiusura di diversi impianti. Per il guru dei prezzi Tom Kloza, della Price Information Service, nel 2010 chiuderanno una mezza dozzina di raffinerie: l’attuale capacità di raffinazione americana ammonta 14 milioni di barili di greggio al giorno.
«Affinché l’attività possa tornare profittevole, l’offerta dovrebbe diminuire rapidamente di almeno uno o due milioni di barili al giorno», ha affermato Ihne, mentre il processo si sta rivelando più graduale con tagli progressivi da 200mila a 400mila barili al giorno. Ma le prime avvisaglie di una imminente campagna acquisti da parte di gruppi stranieri nell’attività raffinazione Usa non sono mancate: l’indiana Reliance Industries ha già lanciato un’offerta in contanti per aggiudicarsi in controllo della LyondellBasell. Insomma, il gigante si trova costretto a mettere su piazza alcuni suoi gioielli.
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Ma a darci il livello di crisi che sta toccando gli Stati Uniti, nonostante ieri le Borse festeggiassero con rialzi diffusi la prima seduta dell’anno, ci ha pensato PayNet Inc. che ha reso noto come nello scorso mese di novembre siano cresciute in modo esponenziale le insolvenze su carte di credito, linee di credito e soprattutto prestiti da parte di piccole e medie imprese negli Stati Uniti, realtà che di converso vede i creditori sempre meno intenzionati a iniettare denaro verso il circuito produttivo. Parliamo di insolvenze che superano i centottanta giorni di ritardo e che quindi gli analisti tendono a dare per perse per sempre: per questo non stupisce che lo Small Business Lending Index, l’indice che misura i flussi di finanziamento, sia crollato dell’11 per cento nel dato anno su anno dello scorso mese di novembre.
E la notizie poco piacevoli, per gli Usa sono solo all’inizio: oggi verrà reso noto il dato rispetto al mercato automobilistico, le vendite al dettagli giovedì e le paghe dei lavoratori non agricoli venerdì. Insomma, l’America annaspa nella “main street” mentre Wall Street corre e la Fed, nei fatti, sta mettendo in campo tutti gli strumenti di diversificazione monetaria necessari per evitare la ripartenza inflattiva non appena, il mese prossimo, verranno ritoccati al rialzo i tassi, ormai a zero tecnico da mesi. In Europa, invece, la crisi corre sul doppio binario. Politico, poiché nessun regolatore né governante sembra minimamente avere idea di come governare questa delicata fase di transizione. Ed economico, poiché interi settori stanno per essere polverizzati dalla crisi e della concorrenza.
L’Italia, non è da meno. Anzi. I prestiti bancari alle imprese, corretti per gli effetti delle operazioni di cartolarizzazione, al settembre 2009 sono diminuiti rispetto all’anno precedente (-1,2%); il calo è stato più intenso, guarda caso, al Centro Nord. Non lo dice il Sussidiario.net ma è ciò che si legge nell’Andamento del credito nelle regioni italiane nel terzo trimestre del 2009 diffuso da Bankitalia. La contrazione dei prestiti al settore produttivo ha riguardato larga parte delle regioni: la diminuzione è più accentuata in Molise, in Calabria e nel Lazio (rispettivamente -9,3%, -5,4% e -3,2%).
Nei dodici mesi terminanti a settembre 2009, i prestiti alle famiglie consumatrici sono aumentati del 2,9%, in rallentamento rispetto al trimestre precedente. Il tasso di crescita dei prestiti alle famiglie meridionali è risultato, in linea con la dinamica dei precedenti trimestri, superiore a quello delle famiglie del Centro Nord. L’aumento dei prestiti ha riguardato tutte le regioni ed è stato più sostenuto in Puglia (6,5%) e Calabria (5,7%). Come nel precedente trimestre, l’Emilia Romagna e la Val d’Aosta hanno registrato i tassi di espansione dei prestiti più bassi tra le regioni italiane.
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Nella media dei quattro trimestri terminanti a settembre 2009, sia per i finanziamenti alle imprese sia per quelli alle famiglie consumatrici, il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti (tasso di decadimento) è aumentato rispetto al trimestre precedente e si è confermato più elevato nel Mezzogiorno. Tra le imprese, il tasso di decadimento è risultato particolarmente elevato in Molise (9,7%) e nelle Marche (4,8%): in Molise il significativo peggioramento della qualità del credito è in larga parte riconducibile alle difficoltà della filiera produttiva locale del settore della moda. Interi settori di eccellenza, il fiore all’occhiello del nostro export e del nostro sistema-paese strangolati da mancanza di credito, concorrenza sleale, normative capestro e l’inerzia politica di chi, a conti fatti, sembrava unicamente interessato al buon fine dell’operazione scudo fiscale.
Benedetta, per carità, altrimenti da febbraio sarebbero state a rischio pensioni e stipendi dei dipendenti pubblici stante la realtà di cassa vuote che lo Stato deve affrontare, ma ora servirebbe un colpo di coda, qualcosa che riattivi il flusso di denaro nel sistema produttivo e consenta ai nostri imprenditori di poter sfruttare anche le occasioni che le crisi portano con sé, prima delle quali l’assoluta qualità dei nostri prodotti e servizi che diviene dirimente in un ambito in cui l’indice di produttività non è più la prima voce. Servono, insomma, quelle benedette riforme condivise di cui si parla tanto ma che mai arrivano: costo del lavoro, mercato del lavoro, una sorta di Commissione Harz come quella voluta da Gerard Schroeder prima di passare lo scettro del potere ad Angela Merkel.
Prima di parlare e parlarsi addosso, i nostri politici facciano un giro nel Veneto non più miracoloso, nel bresciano e nel bergamasco della metallurgia e dell’edilizia in crisi, vadano nella Marche a vedere il comparto calzaturiero. Senza poi dimenticare quella bestemmia alla natura che è la nostra cronica incapacità di tramutare in oro il nostro patrimonio artistico, paesaggistico e culturale attraverso un sistema di cluster per il turismo che realmente divenga competitivo sulla piazza globale. Le priorità sono queste: vediamo se qualcuno là fuori decide di mettervi mano.