L’annuncio che la disoccupazione tedesca è scesa al 7,5%, ai minimi dal 1992, ha preceduto di poche ore la scontata retrocessione del rating della Spagna a opera di Moody’s. Ma è coincisa con altri annunci, forse meno scontati.
Da una parte la notizia che quest’anno, per far fronte al nuovo salvataggio di Anglo Irish Bank, il deficit pubblico dell’Irlanda salirà all’incredibile livello del 32% del Pil: fa tenerezza la promessa del ministro delle Finanze Brian Lenihan di rispettare comunque l’obiettivo del rientro al vincolo del 3% entro il 2014.
Intanto il premier portoghese José Socrates ha presentato un piano drastico per evitare al suo Paese una deriva alla greca: un taglio degli stipendi pubblici del 5% accompagnato da un aumento di un paio di punti dell’Iva. Anche la Francia, intanto, ha annunciato un budget estremamente severo, con l’obiettivo di riportare il deficit, dall’attuale 7,7%, al 6% entro il 2011. L’Italia, a quell’epoca, dovrebbe aver riportato la linea del deficit al 5%.
Ma Parigi non ha certo motivi per invidiare Roma: sempre nel 2011, il debito pubblico italiano salirà alla siderale quota del 119,5%, mentre la Francia, nonostante gli enormi sforzi per fronteggiare la crisi (con il risultato di un tasso di crescita doppio di quello italiano) sarà ferma sull’attuale 89%, livello che garantisce agli Oat francesi una pagella da tripla A da parte delle agenzie di rating.
Questa breve carrellata, proprio nel giorno in cui la Commissione Ue licenzia la sua versione, assai rigida, del patto di stabilità, serve a sottolineare il punto debole che insidia le sorti dell’eurozona: la divaricazione tra le economie del Nord e del Sud Europa. Non è certo una novità. Ma val la pena di fare alcune riflessioni:
A) L’unità monetaria ha prodotto effetti opposti a quelli previsti a suo tempo dalla scienza economica. A lungo si è teorizzato, come scrive il professor Luigi Spaventa, che “con una moneta unica è fisiologico che i paesi più poveri crescano più rapidamente degli altri e abbiano disavanzi finanziati con afflussi di capitale”. Al contrario, è accaduto che i capitali affluiti nella stagione dei tassi bassi non siano finiti a finanziare investimenti produttivi a loro volta in grado di dar vita a un aumento dell’export. Al contrario, sia in Spagna che in Grecia, i capitali sono affluiti in particolar modo nell’edilizia, cioè nella produzione di beni per il consumo interno, provocando un effetto fittizio di ricchezza e, al tempo stesso, generando debiti finanziari insostenibili.
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B) Il modello teorico poteva funzionare se i Paesi più ricchi avessero aumentato la quota dei consumi interni a vantaggio dell’import. Al contrario, la Germania ha reagito alla nascita dell’euro con un grande sforzo di austerità fiscale e finanziaria pubblica e con un regime di moderazione salariale dell’apparato produttivo. Il risultato è stato, nel giro di dieci anni, uno sbilancio enorme in quanto a produttività a favore della locomotiva tedesca. Berlino, intanto, non intende affatto cambiare la fisionomia di un’economia fondata sui successi dell’export piuttosto che sui consumi interni.
C) L’Unione Europea, nonostante le critiche, ha saputo reagire in maniera quasi eroica alla prima ondata della crisi globale: è stato creato un veicolo di risoluzione delle crisi di rifinanziamento dei paesi in difficoltà; è stato varato un pacchetto di pronto intervento per 60 miliardi; la Bce è stata chiamata a comprare titoli del debito pubblico in emissione; sono state istituite nuove autorità di vigilanza sui mercati finanziari. Ma tutto questo rischia di non bastare, in assenza di una forte volontà di coordinamento di queste strutture e di un “passo indietro” delle autorità nazionali. Come ha detto Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, “ci sono forti dubbi che le strutture democratiche possano far fronte, con i loro meccanismi e i loro tempi decisionali, a una seconda, violenta ondata di crisi”. Tutt’altro che da escludere.
D) Per queste ragioni il dibattito sul patto di stabilità (rigore alla tedesca o gradualità latina?) diventa il dibattito sull’esistenza stessa dell’Unione. Per carità, l’euro può sopravvivere anche a una fase di incertezze politiche e decisionali. Ma, in quel caso, rischia di far da vaso di coccio in una contesa globale che si gioca sempre di più sul fronte valutario.
E) In queste settimane si è assistito al flop dei tentavi, nell’ordine, di Svizzera, Giappone e Brasile di frenare l’eccessiva rivalutazione delle loro monete nei confronti del dollaro, spinto al ribasso dall’aggressiva politica della Federal Reserve. La Cina, intanto, resiste perché non vuole che la rivalutazione dello yuan si riveli una trappola paragonabile a quella che, negli anni Ottanta, portò alla rivalutazione dello yen e, di riflesso, alla Bolla finanziaria del mercato azionario e immobiliare giapponese. Non è difficile prevedere che dallo scontro tra i due giganti una Comunità Europea debole abbia ben poco da ricavare. Sia nel caso di discesa del dollaro, nefasta per le sorti dell’export. Sia nel caso di una svalutazione troppo violenta dell’euro, che provocherebbe il collasso delle aste dei debiti pubblici europei.
Insomma, urge una riflessione comune. Nel frattempo, sarebbe saggio per l’Italia un taglio urgente dei costi della finanza pubblica, accompagnato da un calo parallelo della pressione fiscale. Forse il rilancio delle privatizzazioni, a partire dagli enti locali, potrebbe dar l’avvio ad un fenomeno virtuoso. A partire dalle minori spese in cda e consulenze.