L’intervento di Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera dell’11 ottobre conferma come gli schemi e le ideologie oggi dominanti sono inservibili per comprendere l’odierna realtà economica. L’evento più importante che si sta delineando sotto i nostri occhi è la guerra monetaria che attraversa l’intero mondo della finanza. Ma la cecità del pregiudizio impedisce di vederla.



Nonostante la confusione ideologica, alcune interessanti verità comunque trapelano.“Qual è il tasso di cambio giusto fra l’euro e il dollaro? La parità…. o 1,4 dollari per euro, il cambio della scorsa settimana? Nessuno lo sa”. Un’affermazione sconvolgente! I profeti del libero mercato, quelli che a ogni occasione affermavano che il “prezzo giusto” è quello stabilito dal mercato, ora affermano il loro completo agnosticismo! Anzi, ancor peggio: di fronte a una quotazione attuale di 1,40 dollari per euro, sottintendono che quel prezzo potrebbe non essere giusto. Evidentemente, le vicissitudini dell’attuale crisi economica e finanziaria ha scosso nel profondo le loro più radicate certezze. E, senza colpo ferire, stanno passando dal relativismo al nichilismo.



Nonostante gli scossoni che la crisi ha inferto a un certo quadro ideologico, ben pochi sono gli economisti che hanno riconosciuto di dover riscrivere le nozioni fondamentali dell’economia, così come concepita dal moderno liberismo. E Giavazzi non appartiene sicuramente a questi pochi economisti. Il problema è che, a ostinarsi a non vedere la realtà, si va incontro a degli svarioni grotteschi; oppure, ancor peggio, si rinuncia a un minimo di buon senso nello sviluppo dei ragionamenti.

Per esempio. “I tassi di cambio non sono il toccasana che può sostituirsi alla politica economica: sono prezzi che riflettono le scelte dei governi e i loro limiti. Ogni giorno sui mercati si scambiano valute per 4 mila miliardi, un quarto di quanto produce l’America in un anno”. Proviamo a connettere il filo logico di queste due semplici frasi. Nella prima, si afferma che i prezzi del cambio euro/dollaro dipendono dalle scelte di governo. Ma se è vera la seconda frase (e come è vera!), Giavazzi vuol dare a intendere che le scelte del governo Obama influenzano un mercato (quello valutario) che in un solo giorno scambia valori pari a un quarto del Pil Usa di un anno. Mentre il governo Obama, con le sue scelte, riuscirà al massimo a influenzare il Pil Usa per qualche punto percentuale, allo stesso tempo, secondo Giavazzi, riesce a influenzare un mercato come quello valutario, che in un anno scambia valori pari a oltre 60 volte il Pil Usa.



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Essendo Giavazzi un commentatore celeberrimo, dalle colonne di questo modesto quotidiano mi permetto umilmente di dissentire, ipotizzando che sia vero esattamente l’opposto di quanto affermato: e cioè che le politiche economiche del governo Obama, come quelle di qualsiasi altro governo, si debbano adeguare, soprattutto per difendere il proprio export, ai valori espressi dai cambi monetari. Finché la politica monetaria verrà determinata da un organismo distinto e indipendente dal governo (cioè dalle banche centrali, come avviene ottusamente in tutto il mondo moderno e occidentale), la politica economica sarà sempre un gioco di rimessa e di speranzosa attesa sugli andamenti dell’economia internazionale.

 

Esempio due. “La debolezza del dollaro è il riflesso dell’impotenza di Obama che non riesce a convincere le famiglie americane a spendere”. Ma come, sono tre anni (se non più) che ci ripetono in tutte le salse che la colpa della crisi è tutta delle famiglie americane, che hanno speso oltre le loro possibilità, e ora, dopo un simile bombardamento mediatico, questi incontentabili liberisti si lamentano del fatto che le famiglie americane non spendono più?

 

Ma un modesto ragionamento sul fatto che le famiglie non spendono perché non hanno moneta e le banche hanno smesso di fare credito, lo vogliamo spendere? E sulla disoccupazione in continuo aumento, abbiamo qualche considerazione da fare? Senza lavoro e senza credito: a qualcuno viene in mente un qualche motivo per cui le famiglie americane hanno ridotto le spese?

 

In realtà, il dollaro debole è figlio della debolezza dell’economia e di un crisi mai risolta, che ha segnato l’economia Usa in misura maggiore rispetto all’economia europea. Una crisi che dipende strettamente dalla crescente disoccupazione. E il fallimento del governo Obama sul problema della disoccupazione è dipeso anche da una precisa scelta: fiumi di denaro (a spese dei contribuenti, non bisogna dimenticarlo) per salvare il sistema bancario, mentre chi è disoccupato se la deve cavare col libero mercato.

 

Esempio tre. “L’euro forte è il riflesso del dilemma in cui si dibatte la Banca centrale europea (Bce)”. Anche qui, col buon senso, rimane un’affermazione difficile da digerire. Almeno per me, dev’essere la prima volta che sento fare un’affermazione del genere: l’incertezza di comportamento in genere denuncia una non chiarezza di idee. Nel mezzo di una crisi economica epocale, la titubanza non è proprio un segnale rassicurante da mandare ai mercati. Come questo possa tradursi in un rafforzamento dell’euro, è un mistero che solo Giavazzi conosce.

 

“L’euro forte risolve il dilemma della Bce”. E qui ci assale il dubbio che Giavazzi abbia capito quello che lui scrive. Prima l’euro forte dipende dal dilemma della Bce; poi l’euro forte risolve il dilemma della Bce. Ma gli viene il dubbio, a Giavazzi, che alla Bce siano così marpioni da averlo fatto apposta? Si sono impantanati nel dilemma, così hanno ottenuto l’euro forte, che gli ha risolto il dilemma: tutto perfettamente logico, no? Alla Bce, le pensano proprio tutte!

 

Esempio quattro. “L’euro forte risolve il dilemma della Bce: rallenta la Germania e non obbliga Trichet a tagliare i finanziamenti alle banche.” Toh, ci scappa anche qualche succosa verità: l’euro forte taglia le gambe all’economia reale e sostiene la finanza speculativa. Le banche infatti, di questi tempi, preferiscono finanziare ciò che cresce, piuttosto che finanziare ciò che si trova in difficoltà. Anche loro applicano le leggi del libero mercato, cioè le leggi della giungla (o del Monopoli, come abbiamo visto in altro articolo): vince chi guadagna di più (o sopravvive ai fallimenti altrui), non chi emula il buon samaritano. Da ciò si arguisce anche come mai tutti i bei ragionamenti sul bene comune, in certi ambienti, siano finiti sotto i tacchi.

 

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Esempio cinque. “Il guaio è che l’euro forte risolve il dilemma tedesco ma condanna la periferia dell’Europa. I sub-fornitori della Germania oggi si trovano a Est e sempre meno in Italia”. E qui si scoprono gli altarini. Il dilemma della Bce diventa il “dilemma tedesco”. E diviene improvvisamente più chiaro cosa sta succedendo alla Bce. La politica del dollaro debole e dell’euro forte sta spostando una buona parte del costo della crisi dagli Usa all’Europa. Ma non a tutta l’Europa, bensì alla sua parte “di mezzo”, quella potenzialmente concorrenziale alla Germania. I paesi dove il lavoro è sottopagato servono alla Germania per mettere fuori gioco gli altri paesi, i potenziali concorrenti sulla scena internazionale. Ma io credo che abbiano fatto male i loro conti, soprattutto in riferimento alla capacità di adattamento e alla creatività italiana.

 

Esempio sei. “Come risolvere il nostro dilemma? Riducendo le tasse sul lavoro per far crescere il potere d’acquisto delle famiglie; tagliando le rendite con una ‘botta di concorrenza’ per ridurre i prezzi; aumentando la produttività per ridurre il costo del lavoro senza tagliare i salari”. Il primo suggerimento è impossibile da realizzare: in un periodo in cui, a causa della crisi, le entrate dei contribuenti sono in calo, si chiede di ridurre le tasse. Pure per il secondo la vedo male: per tagliare le rendite bisogna prima trovarle. Chi le ha veramente, le ha già messe al sicuro all’estero. E infine la chicca della terza proposta: siccome pare brutto dire agli operai “da oggi tagliamo il tuo stipendio”, allora deve lavorare di più per il solito stipendio da fame. Insomma, la solita storia: siccome c’è la crisi finanziaria, iniziamo a far stringere la cinghia all’economia reale. “Però senza tagliare gli stipendi”: sarà stata una battuta? Oppure pensava davvero di farci lavorare di più e di tagliarci gli stipendi? Il mistero si infittisce.

 

Esempio sette. “Da tre anni la Federal Reserve, la banca centrale americana, e la Bce creano un’enorme quantità di liquidità: questo consente alle banche di riprendere a concedere prestiti, ma è anche una miccia che può da un giorno all’altro alimentare la speculazione, soprattutto verso i Paesi dove il debito è elevato”. Questo è palesemente falso, ma solo perché creavano moneta in eccesso anche prima. Secondo i dati della Bce, per esempio, nel gennaio 2002 l’aggregato monetario M3 era pari a 5400 miliardi di euro, mentre nell’agosto di quest’anno era pari a 9500 miliardi, un aumento pari a circa il 75%. E perché un simile mostruoso aumento di moneta? Forse l’economia in Europa, in questi anni, è cresciuta del 75%? Oppure bisogna ammettere che la politica monetaria della Bce ha favorito la speculazione internazionale?

 

E quando si parlerà di bene comune? E quando si ipotizzerà un’architettura economico finanziaria in cui la moneta sia al servizio dell’economia reale come dovrà essere anche per la finanza? E quando avremo il coraggio di dare concreta attuazione al principio di gratuità, così solennemente affermato dal Santo Padre nella Caritas in Veritate? Forse il momento è arrivato; come è arrivato il momento di parlare di moneta sussidiaria. E di Big Society.