L’idea di Cameron di riformare il welfare puntando sul tessuto dei corpi intermedi segna una svolta significativa nella politica e nella società inglese, afflitta dagli eccessi di un modello individualista e mercatista che, oltre a tanti meriti, si trova a dover fare i conti con l’indebolimento della trama dei rapporti sociali che arriva fino al punto di rendere problematica la sostenibilità non solo economica ma anche sociale del sistema di sicurezza sociale.
Non a caso, l’idea si afferma nel momento in cui la più grave crisi del dopoguerra costringe ad andare oltre gli ultimi decenni, nati con il neoliberismo di stampo thacheriano. Così, per i paradossi della storia, a distanza di 30anni, tocca al conservatore Cameron ribaltare uno dei pilastri su cui si basò l’azione politica della sig.ra Thacther, secondo la quale la società semplicemente “non esiste”.
Lo stimolo proveniente da Londra è una splendida occasione anche per l’Italia, a patto che, per una volta almeno, riesca a non sentirsi l’ultima della classe: nella prospettiva aperta dal primo ministro inglese, il nostro Paese avrebbe – potenzialmente almeno – tutti i numeri per giocare un ruolo da protagonista. In effetti, per molti aspetti si può dire che, con riferimento alla presenza di soggettività sociali e corpi intermedi che costituiscono l’infrastruttura della Big society, l’Italia condivide, proprio con l’Inghilterra, la leadership europea.
Limitando il confronto al settore forse più dinamico e comunque più emblematico – quello delle cooperative sociali – i numeri sono davvero significativi in entrambi i paesi: in Italia, dove questo tipo di impresa svolge ormai per intero il lavoro di assistenza sociale che lo Stato ha progressivamente dismesso, si contano più di 15.000 unità produttive (prevalentemente cooperative sociali, ma anche fondazioni, associazioni ed enti morali e religiosi) con 350.000 addetti (1,5% dell’occupazione nazionale), 5 milioni di beneficiari dei servizi e un giro d’affari pari a 10 miliardi di euro (0,6% del Pil); in Inghilterra, dove prevalgono charities di grandi dimensioni oltre a forme più recenti come le Community Interest Company, il comparto ha una dimensione di poco superiore (16.000 unità), con una occupazione complessiva di 475.000 unità e un giro d’affari di 22 miliardi di euro.
Questo solo per dire che ciò di cui si sta parlando già esiste e che il problema è semmai il suo inserimento in un disegno generale, nel quadro di nuovi equilibri generali. Naturalmente, tra Italia e Gran Bretagna le differenze sono rilevanti. E in un certo senso, si può dire che, per convergere attorno al modello della Big Society, i due paesi devono seguire un percorso inverso.
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Il modello italiano, segnato profondamente dalla tradizione del cattolicesimo sociale e dalla rilevanza del fattore territoriale, è costituito da soggetti molto piccoli – spesso riuniti in forme aggregative locali o nazionali – con un impianto decisamente più comunitarista. Qui il tema è superare l’iperframmentazione e andare oltre il localismo. Inoltre, l’Italia ha attraversato molto marginalmente l’ondata liberista degli ultimi decenni. Così che da noi, il problema è ancora la riduzione del peso dell’intermediazione politica e della spesa pubblica. Lo stesso Terzo Settore è in larga misura dipendente dal sistema politico-amministrativo, dal quale estrae la quasi totalità delle risorse con cui vive. In questa situazione, al di là delle innumerevoli dichiarazioni di elogio, questo comparto rischia di essere ridotto a braccio esecutivo, mera riserva da sfruttare allo scopo di ridurre i costi più che come un interlocutore da rispettare.
Il caso inglese, di converso, viene da 30anni di liberalizzazioni. Qui il problema principale è combattere la deriva individualistica che sembra arrivata sino al punto di erodere qualunque forma di legame sociale. Inoltre, in Gran Bretagna, l’impresa sociale è diventata una issue molto contesa fra le parti politiche, il che ha portato all’introduzione di importanti forme di incentivazione e di promozione che hanno permesso al settore di crescere, anche dimensionalmente.
Le differenze tra la matrice culturale inglese e quella italiana affiorano, dunque, in modo evidente e vanno tenute ben presenti. Per questo, sarebbe davvero incongruo se l’Italia si limitasse a guardare la svolta di Cameron come a una “novità” da copiare. Ciò che il primo ministro inglese intende fare, non solo ce lo abbiamo già, ma costituisce una parte preziosa della nostra tradizione culturale.
Semmai, la discussione lanciata da Cameron può servire per darci coraggio e riscoprire che anche quello che si fa in Italia qualche volta può essere da modello per gli altri.
Il problema è piuttosto quello di rimettere in movimento un dinamismo che negli ultimi anni sembra aver perso spinta propulsiva. Per innescare questa nuova fase c’è bisogno di stabilire una nuova transizione tra un’idea rinnovata di libertà – meno individualistica e più relazionale – e una profonda innovazione istituzionale – decisamente orientata alla valorizzazione delle risorse presenti nella società.
Per muoversi in questa direzione, il nodo cruciale che l’Italia deve ancora sciogliere riguarda l’eccessiva presenza dello Stato nella vita sociale ed economica. Tale riduzione, però, non va orientata semplicemente alla liberazione delle risorse private, quanto piuttosto al rafforzamento e al sostegno delle forze sociali, umane, economiche presenti nel paese, nel quadro di assetti istituzionali in grado di ospitare, sostenere e alimentare, secondo la specificità del nostro modello sociale, il senso di una libertà che ha capito di essere condannata all’annichilimento se rinuncia alla responsabilità
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Se si partisse dalla già ricca e significativa infrastrutturazione sociale esistente nel Paese, i fronti sui quali si potrebbe lavorare sarebbero moltissimi: nuove forme di aggregazione della domanda da parte dei cittadini; messa in circolo di risorse finanziarie aggiuntive (si pensi ai fondi integrativi) in modo da superare la dipendenza dal finanziamento statale; ruolo dei municipi nella identificazione di nuovi beni comuni; riforma fiscale.
Nel solco della tradizione da cui promana – che enfatizza il territorio e la comunità – questa linea di azione ha tutte le potenzialità per diventare un pezzo importante di quella nuova idea di futuro che il Paese in questi mesi va chiedendo. L’obiettivo di fondo dovrebbe essere quello di “destatalizzare socializzando”, nella consapevolezza che ciò di cui le società avanzate hanno oggi bisogno è, insieme, di più responsabilità e più giustizia sociale.