Le compravendite di immobili in Spagna in agosto hanno segnato un +30% rispetto allo stesso mese dell’anno prima. La notizia è stata data con grande enfasi da tutti i media e giustamente, perché si tratta di una notizia importante e, all’apparenza, anche buona: il fatto che uno dei paesi europei più duramente colpiti dalla crisi veda un segno positivo in un indicatore significativo come l’immobiliare, fa ben sperare di essere vicini alla fine del tunnel. Però forse le cose non stanno proprio così e questo dato va vagliato con attenzione.
L’eccezionale boom che per decenni ha caratterizzato l’economia spagnola è dovuto a tanti fattori, come un governo in grado di decidere, una classe dirigente di livello e un sistema creditizio sviluppato. Ma soprattutto ha avuto un protagonista: il ladrillo, come in Spagna si chiama il mattone. Sono state le costruzioni, l’industria immobiliare, unite alla facilità di accesso al credito, a creare il miracolo economico iberico. E assieme a questo, hanno creato anche l’altra faccia della medaglia: la bolla immobiliare. Che quando è esplosa, parallelamente all’arrivo della Grande Crisi mondiale, ha messo a terra l’intero sistema spagnolo.
Ora proprio dal ladrillo arriva il primo segno di ripresa. E arriva non come lieve inversione di tendenza, ma come picco improvviso, come un Bengodi che finalmente ritorna e fa dimenticare il periodo nero che sta alle spalle, archiviandolo come uno spiacevole intermezzo da scordare in fretta. Insomma c’è la sensazione che tutto riparta come prima, senza cambiamenti e dunque, con tutte le potenzialità negative che si sono conosciute con lo scoppio della bolla.
Un’aria da “come prima, più di prima” arriva anche dal mondo delle banche internazionali. Lo ha segnalato lo stesso ministro del Tesoro, Giulio Tremonti, subito dopo il vertice del Fondo Monetario Internazionale a Washington. Le banche hanno ripreso a organizzare feste e banchetti – ha detto in sostanza. Tutto è tornato come prima della crisi. I banchieri si sono riappropriati dei loro vecchi stipendi e bonus e, soprattutto, hanno ricominciato a fare quella finanza creativa che ha portato il mondo sull’orlo del precipizio.
Il giorno dopo il Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, si è affrettato a gettare acqua sul fuoco, minimizzando quanto detto da Tremonti: “Si tratta di comportamenti isolati. Sono pochi quelli che hanno ripreso gli antichi difetti”. Sarà, ma negli ambienti finanziari si è più propensi a pensare che abbia ragione il ministro con il suo pessimismo sui banchieri che perdono il pelo ma non il vizio e che il Governatore lo abbia rintuzzato anche (se non soprattutto) per un gusto di polemica.
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Basta guardare ai prodotti che le banche di nuovo propongono alla clientela per rendersi conto che gli ingegneri finanziari non sono andati in pensione. Forse si erano presi qualche mese di vacanza e ora sono tornati ai loro posti di lavoro con tanta voglia di fare. Come un tempo quando con le loro brillanti trovate diedero un contributo non marginale all’esplodere della crisi.
Un segnale ancora più forte di nostalgia per il passato viene da Washington. L’amministrazione Obama non sa più a quali strumenti ricorrere per rilanciare un’economia che non vuol saperne di imboccare la strada della ripresa e, allo stesso tempo, vuole ridurre il valore relativo del dollaro per favorire le esportazioni americane. Quindi ha deciso che verranno lanciati dei Buoni del Tesoro e che a sottoscriverli sarà la stessa Federal Reserve. Lo ha confermato venerdì scorso a Boston lo stesso Presidente della Fed, Paul Bernanke: il suo istituto avvierà una nuova fase di “quantitative easing” acquistando, appunto, titoli del Tesoro a lungo termine.
In poche parole si stamperanno dollari, si creerà base monetaria, liquidità. Ma non si è detto fino a pochi giorni fa che proprio la pressoché illimitata base monetaria era stata una delle cause più profonde e velenose della crisi? E questa politica non rischia di avere un potenziale inflazionistico da metter paura? E ancora: l’amministrazione americana è sicura che la tenacia con la quale cerca di deprezzare il dollaro nei confronti soprattutto del renmimbi cinese sia, nel lungo periodo, una politica vincente?
Pochi giorni fa Paul Kennedy, professore di storia alla Yale University, ha scritto: “È un fatto storicamente assodato: nessun Paese ha mai indebolito la sua moneta (e il suo potere d’acquisto) a vantaggio della moneta di un altro Paese senza perdere anche la sua influenza internazionale”. È davvero questa la strada che l’America di Barack Obama vuole imboccare?