Battuta dell’anno: «La ripresa mondiale è a rischio se non si riesce a mantenere lo spirito di cooperazione tra le principali economie del globo». A deliziarci con questo picco di ironia degna di un consumato entertainer è stato Dominique Strauss-Kahn, direttore generale del Fmi, nel corso dell’incontro di ieri a Shanghai con i responsabili delle principali Banche centrali a livello mondiale per discutere ufficialmente di «come far progredire il dialogo sugli impegni da prendere a livello di vigilanza prudenziale al fine di contribuire alla stabilità finanziaria».
Insomma, per uno degli uomini più potenti della scena economica internazionale, il fatto che le grandi potenze litighino mette a repentaglio la ripresa dallo shock del 2008: il problema, verrebbe da chiedersi, è quando mai Strauss-Kahn abbia visto le principali economie del mondo cooperare e non farsi la guerra. Il sistema, che questo piaccia o meno, funziona proprio per questo, per l’ossimoro dello squilibrio equilibrato garantito dalle forze economiche che configgono ognuna in nome del proprio interesse, garantendo così dinamicità al sistema e l’esistenza stessa di un fenomeno come quello dei Bric (Brasile, Russia, India e Cina) a spezzare l’oligopolio Usa e il vassallaggio di riflesso di cui vive l’Europa.
Il vertice arrivava a una settimana di distanza dalla chiusura dei lavori di Fmi e Banca Mondiale e a pochi giorni dal G20 finanziario di Gyeongju, in Corea del Sud, in una riunione che rientra «nell’esame internazionale in corso delle sfide poste dalla crisi finanziaria globale»: se ogni meeting sul tema, da due anni a questa parte, portasse con sé un aumento dello 0,1% del Pil dei paesi protagonisti, saremmo tutti della Cina al cubo. Peccato che, invece, si perda tempo a parlare lasciando incancrenire la situazione e, nei fatti, facendo nascere ed emergere nuovi focolai di crisi: la bomba delle ipoteche immobiliari Usa, quella del mercato obbligazionario, quella delle commodities e quella monetaria.
Già, la crisi monetaria. La riunione dei cervelloni, infatti, si è svolta con sullo sfondo il rischio di guerra delle valute e di un nuovo protezionismo dopo i recenti dissensi tra Europa, Cina e Stati Uniti. Il tutto, in uno scenario che vede lo yen intorno ai massimi degli ultimi 15 anni sul dollaro e, allo stesso tempo, lo yuan in lenta fase di apprezzamento sul dollaro, anche se secondo le autorità statunitensi sarebbe ancora svalutato di circa il 20-30% rispetto al valore effettivo. Come ormai abbiamo ripetuto fino alla nausea nelle ultime settimane, nell’attuale quadro di difficile ripresa economica una moneta sottovalutata facilita le esportazioni e quindi il rilancio dell’economia del paese che riesce a mantenere basso il cambio. Insomma, il cosiddetto debase, sia valutario ma soprattutto del debito.
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A questo proposito segnali di distensione sono arrivati dalla Cina, visto che nel corso del vertice Yi Gang, il numero due della Bank of China, ha detto che «la Cina continuerà a mantenere alta la domanda interna e procederà alla riforma graduale dello yuan», mentre per John Lipsky, vice direttore generale del Fmi, «non c’è nessuna guerra sulle monete ma un approccio coerente e cooperativo». Due non-sense in una sola frase, siamo a livelli di record: la Cina millanta apprezzamenti dello yuan che per essere reali dovrebbero essere almeno del 30% annuo ma, in realtà, traccheggia e lavora già al piano di sviluppo globale, ovvero quando sarà la prima potenza economica del mondo si sarà dotata di una grande piazza finanziaria a Shanghai che distruggerà Singapore e farà paura ad Hong Kong e, soprattutto, abbandonerà la logica del peg lasciando lo yuan libero di fluttuare sul mercato dei cambi.
Il tutto per un solo motivo, da qui al 2020 (data studiata da Pechino per il sorpasso definitivo) la Cina non solo detterà le regole, le scriverà e le farà anche rispettare: tutti i poteri in mano a un solo soggetto. E i balletti valutari degli ultimi giorni, parlano la lingua di un nervosismo sospetto degli investitori-operatori. Nella mattinata di ieri l’euro ha segnato un deciso ribasso rispetto al dollaro, quotando 1,3874 dollari contro 1,4019 di venerdì in chiusura. Sempre forte lo yen, che sale contro l’euro a 112,6 da 113,81 e contro il dollaro a 81,16 da 81,31. Insomma, gli investitori stanno aggiustando le proprie posizioni in vista dei vertici internazionali in programma, visto che settimana scorsa l’euro era salito fino a 1,4159 dollari, il massimo dal 26 gennaio scorso.
La prudenza sui mercati sembra prevalere, mentre l’attesa di eventuali interventi del Giappone sui mercati sembra meno probabile, dopo che il dollaro ha toccato settimana scorsa il minimo da 15 anni a 80,88 yen senza segnali di intervento. A tenere banco, però, è sempre la scelta della Fed di inondare i mercati con un’altra messe di quantitative easing, comprando obbligazioni a man bassa, spargendo ulteriore liquidità “inesigibile” in circolo e puntando a una frantumazione controllata della concorrenza, ovvero minare le fondamenta dei partner internazionali senza però azionare opzioni shock che si ripercuoterebbero sugli stessi States, costretti a far buon viso a cattivo gioco vista la detenzione estera del loro debito.
Qualcosa, però, scricchiola. La Corea del Sud, quinto detentore al mondo di riserve in valuta estera, sta considerando infatti di espandere, e non di poco, il proprio portafoglio, pesantemente denominato proprio in dollari, guardando all’oro come bene alternativo. Per Kim Choong-Soo, governatore della Banca centrale sudcoreana, «occorre ragionare in maniera molto attenta riguardo l’aumento dei volumi aurei delle nostre riserve estere». Detto fatto, se Seoul si muoverà in tal senso avrà avuto ragione chi settimane fa pronosticava un ulteriore rally dell’oro.
C’è da dire che la Corea del Sud ha il livello di riserve auree più piccolo tra le economie avanzate – 14 tonnellate, ovvero lo 0,2% dei suoi 290 miliardi di dollari di riserve -, visto che la media mondiale è del 10% stando a dati del World Gold Council e che Usa, Germania e Francia vantano riserve in oro per oltre il 50% de totale. Quindi, in tempi di crisi, turbolenze valutarie e rischi di ripresa ulteriormente rallentata, un investimento di diversificazione nel bene rifugio per antonomasia non appare teoricamente un’eresia, solo che i valori attuali e la crisi a orologeria innescata dal governo sudafricano, capace di inventarsi un’emergenza furti tra i dipendenti di alcune delle sue più fruttuose miniere (la African Barrick, con tempismo perfetto, ha infatti annunciato un crollo delle produzione di 30mila once quest’anno a causa di licenziamenti e sospensioni di personale accusato di rubare), sconsiglierebbero investimenti a molti zeri o, comunque, strutturali.
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Il problema è che la febbre asiatica per l’oro, comincia a diventare davvero un qualcosa di molto serio: Cina, India, Thailandia e Bangladesh si sono già lanciate in uno shopping aureo sfrenato all’interno di un mercato reso squeezy dall’alt alle vendite d’oro deciso dalle banche centrali europee. Stando all’ultima valutazione dell’azienda di consulting sui metalli preziosi GFMS, le banche centrali mondiali stanno per diventare quest’anno acquirenti netti d’oro per la prima volta dal 1988: un anno che, non a caso, anticipò di pochi mesi il big bang del vecchio ordine mondiale.
Storicamente, poi, Seul ha sempre preferito obbligazioni legate al Tesoro che commodities poiché le prime sono più liquide e possono essere utilizzate come arma per tenere sotto controllo la notoriamente volatile moneta locale: il problema è che a oggi il 63% delle riserve estere sudcoreane è denominato in dollari, con il resto diviso tra euro, sterline e yen. Per Lee Ji-Pyeong, ricercatore al LG Economic Research Institute, «la banca centrale coreana resterà in questo limbo di esitazione ancora per un po’ in attesa che i prezzi dell’oro calino, cosa che non accadrà. Avrebbe dovuto cominciare a creare stocks aurei lo scorso anno ma nessuno pensava alla necessità di una diversificazione a questi livelli. Nonostante il prezzo dell’oro sia salito molto e molto in fretta, il trend è destinato a restare in crescita vista anche la debolezza del dollaro, le parole di Bernanke riguardo un nuovo programma di quantitative easing e la fame d’oro delle banche centrali in periodo di tassi ancora estremamente bassi».
Se però Seul deciderà di sfidare la logica e si getterà nel mercato aureo, un minimo aumento percentuale di acquisti in oro per le riserve si tradurrà in qualcosa come 100-200 tonnellate d’oro, un fonte di domanda pesante in un contesto di produzione annuale mondiale di sole 2500 tonnellate. Capite da soli che se il presidente di turno e paese organizzatore del G20 che si terrà tra due settimane si arrovella con scelte strategiche simili, significa che la discussione rischia di prendere la piega delle perle regalateci da Dominque Strauss-Kahn: ma Seul ha lanciato il sasso, nascondendo la mano per un motivo particolare.
Al meeting, infatti, la presidenza chiederà l’introduzione di un sistema globale di reti di salvataggio finanziario che potrebbe incoraggiare molti paesi e detenere riserve minori. Cash is king, nessuno – Cina in testa – accetterà mai una proposta simile. Siamo alla guerra di retroguardia, alla strategia pura in attesa di un evento shock che nessuno sembra riuscire a prefigurare: siamo ai livelli del 1988 per richiesta d’oro, potrebbe essere la vigilia di un nuovo 1989.