I movimenti monetari ricordano spesso un sistema di vasi comunicanti. Un sistema bilanciato da pesi e contrappesi che sovente, immersi nelle contrattazioni giornaliere, tendiamo a ignorare. Nella seconda metà di settembre uno di questi meccanismi, lento e inesorabile, potrebbe aver raggiunto una soglia critica: dopo una serie di resistenze, euro, sterlina, yen e yuan si apprezzavano all’unisono sul dollaro. Sui mercati monetari erano iniziate le grandi manovre per la svalutazione del debito statunitense.
Da allora i terminali informatici tracciano sugli schermi uno strano grafico in discesa: nella parte alta, il tasso di cambio dollaro-euro e dollaro-sterlina scende con decisione verso il fondo. Nella fascia bassa, invece, la curva dollaro-yen, già di per sé debole, scende in picchiata, quasi a voler uscire dallo schermo per piantarsi nella scrivania.
Le principali valute mondiali sembrano calamitate verso un nuovo equilibrio economico. Un equilibrio caratterizzato da un dollaro forzatamente debole. Resta una linea retta, quasi impassibile, che solca il grafico senza mai registrare alcuna variazione: il cambio dollaro-yuan.
La valuta di Pechino, insensibile alle spinte dei mercati, si apprezza leggermente sul dollaro a partire da settembre 2010. Questo è il primo movimento registrato tra le due sponde del Pacifico dal 2008. Elemento insolito, se consideriamo che i mercati valutari sono i più liquidi del pianeta.
Sugli effetti distorsivi di uno yuan artificialmente debole si è scritto molto. Io stesso ho trattato dell’argomento in un paio di articoli qui precedentemente pubblicati. Oggi più di un analista vede in questo artificio – la massiccia svalutazione dello yuan attraverso operazioni turbative degli equilibri di mercato – un pericoloso precedente. D’altronde se il paese dotato delle più grandi riserve monetarie al mondo si impegna a svalutare la propria valuta, perché non dovrebbero farlo quelli occidentali, ben più indebitati? Nell’attuale congiuntura di incertezza, una logica del genere rischia di innescare un scontro monetario che nulla avrebbe da invidiare alla celebre sfida dell’O.k. Corral.
Continua
La logica del muro contro muro, delle barricate monetarie tra Est e Ovest è inevitabile oppure esiste un’apertura? Scorrendo il dito su una mappa, da Occidente verso Oriente, effettivamente un muro a metà percorso si incontra. È la catena montuosa degli Urali. Poco sotto, si apre una distesa che dal Mar Caspio giunge fino ai primi villaggi uiguri dello Xinjiang, sulla frontiera occidentale cinese: questa distesa di steppa e deserti passa sotto il nome di Asia Centrale.
Cinque paesi in tutto, per un’area economica ancora poco sviluppata: Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. Terre ricche di risorse e di storia: strade e commerci, la celebre via della seta, un crocevia che ha portato Oriente e Occidente a toccarsi. E non a caso, come gli appassionati di numismatica possono rilevare, il simbolo più ricorrente tra le banconote di questa regione è la porta, elemento ricorrente nei monumenti nazionali e forse l’immagine più adatta a riassumere il passaggio di beni e culture.
Terminata l’influenza sovietica e superate le crisi degli anni Novanta, oggi questi paesi si affacciano ai mercati esteri cercando di agganciare il treno della crescita globale. I presupposti per una collaborazione fruttuosa non mancano, sebbene sulla strada dello sviluppo i pericoli siano sempre in agguato. Tra le basi su cui costruire una solida crescita basterà citare alcuni tra gli elementi chiave dell’Asia Centrale.
Il sistema educativo, innanzitutto: una rete capillare, ereditata dal dissolto regime sovietico, capace di riconoscere studenti di talento e sostenerli fino al raggiungimento di un’ottima formazione tecnica e universitaria. Pure sul versante strettamente economico, le potenzialità non mancano. Con un’economia regionale basata principalmente sul settore primario, questi paesi possono contare su grandi capacità di esportazione, grano e cotone in primis, sebbene le coltivazioni siano ancora in larga parte basate sulla forza-lavoro dei numerosi braccianti agricoli. La meccanizzazione agraria, cominciata già in periodo sovietico, oggi continua con il sostegno, sempre più determinante, della Cina che, per inciso, è oggi il più grande esportatore di macchinari agricoli nella regione.
E qui cominciano i problemi. Fortuna o condanna di ogni paese emergente, le risorse minerarie ed energetiche sono abbondanti e distribuite pressappoco in tutto il territorio. Insomma, il rischio che l’intera area si trasformi in un centro di shopping energetico all’ombra del Dragone è alto. Eppure dallo sviluppo stabile di questa regione potrebbe passare un’alternativa allo scontro monetario.
Per comprendere la posta in gioco è necessario ritornare al grafico di poco sopra. Alle prime avvisaglie di svalutazione sul dollaro, molti tra i paesi emergenti hanno reagito con misure restrittive sulla circolazione di capitali. La paura è che gli investitori delusi da un dollaro debole riversino un’ingente liquidità in quei paesi emergenti in grado di offrire investimenti redditizi a fronte di rischi ormai accettabili.
Continua
L’improvvisa inondazione monetaria andrebbe ad apprezzare proprio quelle valute che, trainate dall’export, hanno ogni interesse a restare deboli nei confronti del dollaro. Il Brasile, ad esempio, ha irrigidito il controllo sugli scambi valutari così da evitare il massiccio ingresso di capitali esteri. Misure simili sono state adottate in India e Sud Africa, dove i mercati di cambio sono già rigidamente regolati. A questo punto è lecito domandarsi cosa succederebbe se pure la Cina smettesse di acquistare titoli di Stato americani e cominciasse a diversificare i propri investimenti.
Trovando l’ingresso sbarrato in molti tra i mercati in crescita, i riflettori sarebbero puntati in un primo tempo sui Next 11, ovvero su una serie di undici paesi che secondo Goldman Sachs sono destinati a rimpiazzare le attuali prime donne dei mercati emergenti, i celebri BRIC. Nella lista dei Next 11 figurano: Bangladesh, Egitto, Indonesia, Iran, Messico, Nigeria, Pakistan, Filippine, Korea del Sud, Turchia e Vietnam. BRIC, invece, è l’acronimo dei quattro paesi che dominano la scena mondiale nei panni di reginette emergenti: Brasile, Russia, India e Cina.
Cartina alla mano, Pechino potrebbe mostrarsi riluttante a investire nei Next 11: una buona metà degli undici paesi scalpitanti si trova in Asia e vede nell’industrializzazione cinese un’occasione di sviluppo (molti dei componenti informatici assemblati in Cina sono già oggi prodotti nel sud-est asiatico). Insomma, a Est c’è sempre un emergente più emergente e la Cina potrebbe presto impararlo a proprie spese.
Trovandosi nell’impossibilità di diventare un traino regionale, poiché la Cina non ha neppure lontanamente la stabilità interna necessaria a un tale ruolo, Pechino dovrebbe cercare un piano b. A quel punto gli occhi del Dragone punterebbero in direzione dell’Asia Centrale. Se i paesi occidentali sapranno trovarsi preparati, l’interesse di Pechino per questa regione si trasformerà in un’occasione di incontro tra Est e Ovest, una nuova via della seta di cui i paesi dell’area potranno ampiamente beneficiare. In caso contrario, lo yuan assumerebbe un ruolo alternativo al dollaro, diventando una valuta di riserva.
Nel 1971 un membro dell’amministrazione Nixon, il segretario al Tesoro John Connally, disse: “Il dollaro è la nostra valuta ma un vostro problema”. Nel momento in cui lo yuan diventerà parte delle riserve monetarie dei paesi emergenti e valuta per transazioni globali, il dollaro tornerà ad essere una questione strettamente americana. Mentre il resto del mondo avrà un problema serio da affrontare.