Bel contributo quello di Gianni Gambarotta pubblicato lunedì scorso su ilsussidiario.net. Un articolo che mi permette di affrontare un argomento che da tempo mi ero ripromesso di trattare, ovvero il fatto che i cosiddetti “derivati tossici” sono tutt’altro che spariti dai desk di broker e altri soggetti interni al sistema che descriveremo partendo dal suo mantra, dal principio chiave, quello definito “eroga e distribuisci”. Ovvero, il modello di cartolarizzazione in base al quale un’attività potenzialmente pericolosa – ad esempio, un mutuo subprime – veniva accorpata ad altre simili e trasformata in titoli che venivano poi venduti a investitori più capaci e disposti a tollerare il rischio.
Qual è il limite insito in questo sistema? Riduceva gli incentivi e la volontà a valutare l’affidabilità creditizia del mutuatario: i diversi attori del processo di cartolarizzazione incassavano invece una commissione e poi trasferivano una parte, se non la totalità, del rischio a qualcun’altro. Tutti, proprio tutti, erano complici di questa catena: il broker ipotecario che gestiva il mutuo iniziale, il perito stimatore che aveva ogni beneficio a produrre valutazioni gonfiate, la banca che erogava il mutuo e poi lo impiegava per generare titoli garantiti da mutui ipotecari, quell’arma di distruzione di massa meglio conosciuta come mortgage-backed securities (Mbs), la banca d’investimento che impacchettava sapientemente questi titoli in obbligazioni garantite da crediti, le altrettanto famigerate collateralized debt obligations (Cdo), le agenzie che distribuivano i tanto ambiti rating AAA lungo il percorso al fine di infinocchiare più investitori possibili con il miraggio dell’investimento ultra-certo e ultra-garantito e, infine, gli assicuratori monolinea che garantivano queste tranche tossiche.
E come si potrebbe fare a bloccare questo meccanismo perverso, ovvero a valutare più attentamente i rischi di quelle salsicce tossiche che venivano propinate agli investitori? Un modo potrebbe essere quello di costringere gli intermediari, la banca emittente e la banca d’investimento, a detenere in portafoglio alcuni degli Mbs e delle Cdo in questione, ovvero obbligarli a ingoiare la poison pill oppure a comportarsi in maniera più responsabile visto che quella cartaccia se la devono tenere in pancia per legge.
(Valore stimato del mercato globale dei cdo tra il 1988 e il 2006)
Al G20 si è parlato tanto al riguardo ma, come sempre, non si è concluso nulla. Mentre in base al Credit Risk Retention Act promulgato dalla House of Representatives statunitense nel dicembre 2009, le banche coinvolte nella creazione di titoli garantiti da attività sono obbligate a trattenere il 5% dei titoli creati e una proposta di legge presentata in Senato vorrebbe portare questa percentuale al 10%, con l’ovvia proibizione per le banche di cercare copertura o trasferire i rischi derivanti dalla detenzione in portafoglio.
Nobile intento, ma dal forte odore di atto populistico destinato a non disturbare, nella realtà, il manovratore, visto che un livello di rischio trattenuto così basso non sarà certo sufficiente a modificare i comportamenti delle banche e della loro fame di profitti: perdono cento, guadagnano comunque mille. In sé, poi, non è nemmeno la detenzione del rischio l’unica chiave di lettura della crisi, visto che la maggior parte della tranche supersenior del Cdo con rating AAA è rimasta nei portafogli degli operatori finanziari anziché essere venduta agli investitori: allo scoppio della crisi, circa il 34% di tutti gli attivi delle principali banche statunitensi era collegato al settore immobiliare, percentuale che per le piccole banche giungeva al 44%.
Ecco spiegato il perché delle perdite colossali registrate: gli operatori finanziari trattenevano una parte dei rischi non perché si fidassero ciecamente del giocattoli, ma poiché per i trader era una fonte di guadagno. Non serve, come qualcuno vorrebbe, abolire le cartolarizzazioni: occorrerebbe in primo luogo la standardizzazione, ovvero un’omogeneità nelle procedure di creazione dei titoli garantiti da attività e in secondo luogo una regolamentazione stringente dei Cdo. Già, perché se è infatti relativamente facile apportare un po’ di trasparenza ai plain vanilla, ovvero le varianti più semplici dei titoli garantiti da attività, decisamente più dura, anzi quasi impossibile, appare la speranza di rendere “tracciabili” i titoli complicati come i Cdo o addirittura i Cdo2 e Cdo3.
Come funziona, infatti, la creazione di un ipotetico Cdo? Prendiamo un migliaio di prestiti individuali differenti, ovvero mutui ipotecari commerciali, mutui residenziali, prestiti auto, saldi negativi su carte di credito, prestiti a piccole imprese, agli studenti o alle società. Impacchettiamoli per bene tutti insieme in un titolo garantito da attività (Abs), poi prendiamo quell’Abs e combiniamolo con altri novantanove tipi di Abs diversi, in modo da averne un centinaio e otteniamo così un Cdo. Come in una ricetta gastronomica che avanza ingrediente dopo ingrediente, prendiamo quindi questo Cdo e combiniamolo con altri novantanove tipi diversi di Cdo, ciascuno dei quali basato su un proprio mix di Abs e attività sottostanti.
Detto fatto, in teoria il potenziale acquirente di questo Cdo2 dovrebbe in qualche modo riuscire a valutare la qualità e il contenuto di dieci milioni di prestiti sottostanti. Impossibile, quasi luciferino. Non a caso, nell’ambiente finanziario l’acronimo di Cdo è “Chernobyl Death Obligations”. Insomma, la ricetta sarebbe semplice: ovvero, preparare salsicce finanziarie con ingredienti di qualità e non mischiando carne di vitello e maiale con altra marcia o avvelenata. Solo che questo comporta una perdita di profitto, ovvero il primo peccato capitale del broker e dell’investment banker.
Solo che di perdite, all’orizzonte di questo settore, se ne prospettano ancora. E non da poco. Stando ai calcoli, nei fatti confermati anche dagli interessati, le perdite legate al pasticcio delle ripossessioni ipotecarie negli Usa tra il 12 e il 15 ottobre scorso sono costate qualcosa come 49,3 miliardi di dollari per Citigroup, Bank of America Corporation, Wells Fargo e JPMorgan Chase, costrette ad assistere a un’erosione del valore di mercato che vedrà i costi andare a intaccare i profitti. La sola JPMorgan ha creato riserve speciali per 2,3 miliardi di dollari per coprire i costi delle ripossessioni ipotecarie e delle spese legali che si troverà ad affrontare.
Inoltre, se anche i costi fossero gestibili, è il contraccolpo psicologico a fare paura, visto che a fronte di una situazione potenzialmente esplosiva di cui, ancora una volta, non si conosce l’entità, la gran parte degli investitori non vuole correre rischi e scarica le azioni degli istituti coinvolti: a inizio mese, le Corti supreme di tutti i cinquanta Stati Usa hanno fatto capire chiaramente che le banche dovranno infatti comprare miliardi di dollari di prestiti da investitori in obbligazioni legate a mutui.
Ma quanto costerà questa politica obbligata? Caos generale. Per Chris Gamaitoni della Compass Point Research il prezzo a livello di perdite sarà di circa 179,2 miliardi di dollari (ovvero, il costo per ricomprare le obbligazioni immobiliari dagli investitori), mentre per Mike Mayo, analista di Credit Agricole Securities a New York, la cifra dovrebbe attestarsi attorno a “soli” 20 miliardi di dollari. Richard Ramsden di Goldman Sachs Group vede invece un worst case scenario pari a 84 miliardi; infine, per Paul Miller di FBR Capital Markets il costo totale per le banche dovrebbe essere di 91 miliardi.
(Percentuale degli asset legati a mutui rispetto al totale dei crediti delle banche Usa nel corso del tempo)
(Rapporto nell’incidenza sul mercato tra credit default swap e derivati sul settore equity)
Per Matthew O’Connor di Deutsche Bank, la realtà che ci troviamo ad affrontare è pericolosa ma anche con un margine di salvataggio possibile: «C’è un sacco di incertezza attorno all’eventuale costo di un’operazione di acquisto di mutui, la cattiva notizia è che non si saprà la sua reale entità per parecchio tempo. Quella buona è che questo lasso temporale permetterà alle banche di assorbire le perdite». Insomma, sonni agitati per Bank of America, JP Morgan, Wells Fargo e Citigroup che, da sole, controllano il 55% di questo mercato.
Non è un caso che, dopo aver imposto la scorsa settimana il blocco alle ripossessioni ipotecarie in tutto il paese, iBank of America abbia parzialmente allentato questa moratoria autoimposta, permettendo le prime operazioni nei 23 Stati dove è richiesto il parere di un giudice per approvare un pignoramento e lasciando interamente attivo il veto negli altri 27 Stati. Insomma, la vendetta dei subprime potrebbe davvero essere alle porte. E questa non è affatto una buona notizia.