Se l’Italia è al 118esimo posto su 139 per efficienza del lavoro e al 48esimo per la competitività del sistema industriale “non è colpa dei lavoratori”. Ha ragione Marchionne, non è colpa dei lavoratori. Ma Fabio Fazio, che lo ha intervistato a “Che tempo che fa”, ha mancato di fargli la domanda davvero interessante: di chi è la colpa?
Ammesso e non concesso che sia una colpa essere meno competitivi di Paesi come la Thailanda, governata da una dittatura, o Taiwan, dove non esiste la protezione sociale, e guardando solo alle economie di Paesi a noi molto simili, come Francia, Germania, Inghilterra, una risposta a questa domanda va assolutamente data.
Nell’intervista a “Che tempo che fa” l’attenzione dell’amministratore delegato della Fiat si è concentrata, per motivi legati alla cronaca, sui sindacati e sulla Fiom-Cgil in particolare (“alla quale aderisce il 12% dei dipendenti Fiat sindacalizzati che sono la metà del totale”). Però è un po’ difficile sostenere che la perdita di tutte queste posizioni nel ranking mondiale della competitività siano da imputare unicamente alla Fiom-Cgil, anche perché il nostro è un male che viene da lontano, anche se, certamente, è vero che il sindacalismo antiquato che le sigle italiane hanno attuato nel corso dei decenni ha dato un proprio non secondario contributo.
Marchionne ha risposto poi alla sua celebre frase sugli “zoo” che in Italia sono stati aperti e dai quali sono usciti “tutti gli animali”. Difficile non vedere in questa critica un attacco al mondo politico e ai suoi “abitanti” (virgolette nostre). Certamente la politica ha colpe incommensurabili sulla perdita di competitività dell’Italia, ma è molto, molto difficile estrapolare dal novero delle responsabilità quegli industriali che per decenni non hanno trovato di meglio che farsi assistere proprio da quella politica che oggi denigrano come fosse uno “zoo”.
Per cercare altre responsabilità Marchionne dovrebbe volgere lo sguardo indietro e controllare quante volte la Fiat è stata portatrice sana di competitività in un Paese nel quale nessuno aveva interesse a introdurla. Lo “zoo” di cui parla Marchionne è quello non soltanto che ha garantito le rottamazioni, ma anche la cassa integrazione per le persone che sarebbero state espulse dal sistema produttivo per le decine di clamorosi errori industriali della fabbrica torinese che, mentre i suoi concorrenti innovavano, preferiva incassare soldi pubblici dallo “zoo” che non è vero che sono stati ripagati.
Basterebbe una sommaria ricognizione nel sito della direzione “competition” della commissione europea per sapere che negli ultimi 10 anni sono stati elargiti alla Fiat qualche centinaia di milioni di euro in aiuti sia europei che statali. E’ un po’ limitativo sostenere una verità inoppugnabile (in questa crisi la Fiat non ha bussato alle porte dello Stato come hanno fatto i concorrenti francesi e tedeschi) guardando solo gli ultimi tre anni. Se si vuole ragionare su ritardi storici dell’Italia occorre guardare alle responsabilità storiche di tutti.
In Italia la competitività non c’è perché le grandi industrie non sono mai state pronte ad accettare le regole concorrenziali che oggi invocano. E c’è qualche dubbio che siano pronte oggi se il loro massimo rappresentante, Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, rivolgendosi al governo chiede “soldi veri” e una sorta di “cogestione” dei fondi europei scemando, contemporaneamente, l’enfasi oratoria su liberalizzazioni, concorrenza e competitività. C’è voluto Marchionne per smuovere una sonnecchiosa Confindustria e farle prendere una posizione dura che facesse argine a un sindacalismo distruttivo come quello della Fiom. Senza il caso Pomigliano, quanto tempo avremmo dovuto aspettare perché viale dell’Astronomia si accorgesse dei danni che quel sindacato stava facendo a tutti gli industriali meccanici?
Certo, Marchionne ha le mani “più pulite” di chi lo ha preceduto ed è più credibile quando accusa lo “zoo”, ma non dovrebbe dimenticarsi che la classe imprenditoriale di questo Paese la concorrenza che lui tanto ama, l’ha sempre guardata con sospetto, preferendo un più comodo legame, a doppio triplo filo, proprio con lo “zoo”.
“Leggo il giornale tutti i giorni alle 6: c’è una varietà di orientamenti politici e sociali incredibile, tutti parlano e non si capisce dove va il Paese”, ha detto l’amministratore delegato della Fiat. Ha ragione. Anche in Confindustria c’è una varietà di orientamenti: c’è lui, disposto a rompere la pace sindacale per avere, finalmente, delle fabbriche governabili, e ci sono altri che chiedono “soldi veri” allo Stato-zoo. Anche guardando viale dell’Astronomia, e non solo Palazzo Chigi o piazza Montecitorio, non si capisce davvero dove stia andando il Paese.
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