Non so voi ma io non credo alle coincidenze. Non ci ho mai creduto, ma dal crollo di Lehman Brothers in poi la mia certezza sulla loro inesistenza ontologica si è rafforzata fino a divenire granitica. Capirete, quindi, che quanto sta accadendo negli Usa non possa passare inosservato. Né lasciare tranquilli.
Caso strano, a pochi giorni dalle elezioni di mid-term e con la destra ultraconservatrice del Tea Party in grande spolvero, quella centrale di dossier per conto terzi che risponde al nome di Wikileaks spara fuori altre imbarazzanti verità sulla guerra in Iraq, spalleggiata in questa operazione di sbugiardamento e umiliazione del Pentagono proprio da Fox News, la corazzata di Murdoch notoriamente vicina ad ambienti repubblicani.
Non da oggi dico che le élite wasp statunitensi hanno deciso di far fuori politicamente Obama, divenuto scomodo per la sua politica dopo aver egregiamente assolto il suo compito culturale e mediatico, ovvero riammettere gli Usa al genere umano dopo il periodo della guerra al terrore e le guerre che ne sono seguite. Ora che gli Usa sono tornati a essere il paese delle opportunità, delle speranze, dei jeans e della libertà percepita, allora si può pensare a ragionare seriamente sul futuro.
Il quale, G20 docet, passa dal dollaro e dalla decisione che verrà presa nelle segrete stanze: lasciarlo andare a picco, scendendo sotto l’indice minimo dello scorso anno, in ossequio all’export oppure cercare una via alternativa? Nel primo caso, l’effetto boom sulle esportazioni potrebbe però avere il side effect di creare una sorta di panico psicologico collettivo, l’idea insomma che i cittadini della prima potenza mondiale girino con in tasca “rifiuti tossici”, come definisce in prospettiva il biglietto verde Robin Griffiths, analista strategico di Cazenove Capital. Per il capo del monetario estero di Hsbc, David Bloom, invece la guerra valutaria in atto potrebbe portare con sé pressioni insopportabili sugli assets rischiosi trasformando di fatto il dollaro in una valuta rifugio.
Insomma, il momento è di quelli delicati. Non a caso alla Fed si sono affrettati a rendere noto che è sotto stretta osservazione la vicenda delle ripossessioni ipotecarie, potenziale bomba miliardaria per banche e finanziarie e si parla meno di un nuovo piano di quantitative easing. O meglio, se ne parla in altri termini. La conferma è giunta domenica dalla rubrica settimanale di Irwin Stelzer, eminenza grigia di Rupert Murdoch a Washington, sul Sunday Times: per Stelzer, infatti, il nuovo piano di QE2 non si baserà come il primo in un massiccio acquisto di bond governativi quanto in vere e proprie iniezioni di dollari in circolo, la cui efficacia verrà testata mese per mese prima di attivare una nuova tranche.
Operazione, questa, dalla dubbia utilità, ma dal certo effetto collaterale di portare a una massiccia vendita di dollari sui mercati, un selloff che sempre secondo David Bloom sta avvenendo già oggi troppo in fretta. Insomma, l’America apparentemente naviga a vista. Ma solo apparentemente. Il paese sembra pronto a uno scossone e in effetti la politica di tassi bassi e denaro a buon mercato sta creando investimenti di capitali intensivi, non ventures per la creazione intensiva di posti di lavoro.
Occorre, quindi, cambiare rotta. E di corsa. Anche perché, piaccia o meno, Wall Street sta creando le condizioni per una nuova bolla, visto che, dati alla mano, nel 70% degli scambi azionari su quella piazza, i titoli vengono detenuti in media per 11 secondi. Avete capito bene, 11 secondi! I “mercati” non hanno più nulla a che fare con la legge della domanda e offerta, né tantomeno hanno più la funzione di scoprire il “giusto” prezzo: semplicemente non sono più “mercati”, non hanno più nulla di umano, sono governati da computer superveloci e algoritmi che giocano l’uno contro l’altro, automaticamente, su volumi enormi che basano i loro profitti sull’ottimizzazione del differenziale; si campa sul pair spread ad altissima velocità aprendo posizioni quando lo spread sfonda al ribasso per la seconda volta il supporto più alto (dopo averlo superato) e chiudendo la posizione quando lo spread cade sotto il supporto minimo e il profitto è già conseguito. Sono tutte scommesse a breve termine, brevissimo.
A confermarlo è il fondatore di Tradebot, azienda leader dell’high frequency trading con sede a Kansas City, che durante una lezione tenuta a degli studenti di economia ha detto chiaramente di non detenere mai un’azione per più di 11 secondi: e Tradebot non ha chiuso una sola giornata di contrattazione in perdita negli ultimi quattro anni. Capite che si creano volumi artificiali di scambio con detenzioni lampo di titoli e, soprattutto, miliardi di ordini a cancellazione automatica: stanno giocando a “war games” con la Borsa, come se la crisi non fosse bastata.
A New York lo sanno, ma finché la barca va, nessuno si preoccupa di intervenire: il dibattito sul flash trading è acceso e dottissimo a livello accademico, ma non va oltre il mero esercizio di stile. Cosa aspettarci, quindi? Troppi appaiono gli indizi in campo per non sentire un forte odore di strategia parallela, ovvero il fatto che negli Stati Uniti, ancora una volta, siano le elite e gli strati intermedi del potere a prendere le decisioni, non i vertici istituzionali visibili. La cosa, d’altronde, non deve stupire: in gioco c’è la sopravvivenza stessa degli States come prima potenza mondiale.
L’Europa, come al solito, sta ai margini e non spaventa nessuno, anzi subisce il contraccolpo del super-euro alimentato dalle svalutazioni di massa degli altri partner, ma la Cina continua a muoversi e ad attrarre investimenti, come ha dimostrato il numero record di visitatori (oltre 200mila) e accordi stretti registrato alla Fiera di Canton, di fatto la vetrina della Cina sul mondo. Di più, Pechino punta a espandere la sua influenza all’estero, basti vedere l’ultimo sbarco in grande stile a Londra della Agricultural Bank of China, terzo istituto del paese per depositi, capace di sbaragliare tutti i prezzi sul mercato per accaparrarsi 3mila metri quadrati di uffici di fronte alla Bank of England.
Insomma, quale mondo ci aspetta sta per essere deciso in questi mesi. Mai un’elezione di medio termine negli Usa sarà così rivelatrice degli equilibri e delle forze in campo. Il fatto che ieri Ahmid Karzai, presidente afghano, sia stato costretto ad ammettere di aver ricevuto e ricevere finanziamenti dall’Iran, come denunciato dal New York Times pochi giorni prima, parla la lingua di una pressione montante a livello di guerra di nervi: gli Usa hanno bisogno di un accordo con i talebani che non comporti però un’umiliazione, bensì un compromesso che garantisca lo sfruttamento del tesoro di materiali ferrosi e rare earths presenti nel sottosuolo afghano. Poi, si deciderà il da farsi verso Teheran, con Israele pronto a scaldare i motori contro il Libano: l’attacco frontale contro il Sinodo definito filo-arabo e anti-ebraico parla la lingua di un nervosismo tipico delle preparazioni strategiche a eventi di maggior portata.
A Washington, poi, si sa benissimo che la nuova centrale di Al Qaeda è la Somalia e l’idea di un atto che vada a rompere le uova nel paniere all’interventismo d’affari cinese in Africa è alta, ma giocare sporco con il Dragone può essere molto pericoloso: l’unica speranza è quella di un crollo “controllato” del dollaro che comporti un apprezzamento forzato dello yuan, ipotesi che non solo danneggerebbe l’export cinese ma porterebbe con sé scontento e rivendicazioni di salari più alti e migliori condizioni di vita per i lavoratori cinesi, insomma instabilità sociale, la paura maggiore di ogni burocrate cinese.
A quel punto, destabilizzata dall’interno e quindi potenzialmente in balia dei militari che scalpitano per il potere, Pechino sarebbe attaccabile commercialmente e monetariamente: ma si sa, i cinesi sanno come muovere guerra e quando muoverla. Questo G20 lo ha dimostrato: il mondo, ormai, come dice Thomas L. Friedman, è piatto.