Riprendiamo il dibattito sulla welfare society, oggi big society? Se sì, dobbiamo riprendere anche la parola d’ordine che la crisi economica non finirà se non quando avremo raggiunto l’obiettivo della costruzione dal basso di una società, economica e istituzionale, che abbia per fine il pieno impiego delle forze di lavoro.
Se non faremo questo ripeteremo all’infinito l’errore anti-giusnaturalistico del liberalismo kelseniano positivistico, dove la democrazia è solo procedura e mai sostanza. Che ciò sia possibile lo dimostra la poligamia delle forme dell’allocazione dei diritti di proprietà che vive nell’esperienza mondiale del movimento cooperativo, nella pulsione del not for profit, nella finanza islamica che vieta il prestito per interesse com’era nel mondo cristiano prima della riforma gesuitica, come dimostra l’esperienza delle imprese di Chiara Lubich, come dimostra la storia delle imprese dei quaccheri, come dimostra, diciamo con soddisfazione, l’esperienza mondiale delle economie e delle imprese morali, in tutto il mondo.
Ossia vive di tutte quelle forme di allocazione dei diritti di proprietà fondate sullo scambio reciproco del dono e del suo dispiegarsi intragenerazionale e intergenerazionale, fondando società di persone anzichè di capitali e contribuendo in tal modo alla formidabile crescita della stessa economia di mercato e al decadere del dominio dello stato come fonte di ridistribuzione di risorse.
Il dibattito sull’eguaglianza e sulla giustizia oggi si pone a livello internazionale e in questa luce l’economia morale è vista come un aspetto della persistenza e del risorgere dell’esperienza mutualistica a livello mondiale. Il fatto che oggi ritorni dirompente il moto mutualistico è eminentemente positivo ed è un segno evidente del ritorno in forza dello stesso principio di sussidiarietà che, a fronte del dilagare del liberismo assurto come unico modello – non di organizzazione dell’economia, quanto, invece di organizzazione della società – si amplia al di là dei confini della Dottrina sociale cattolica ottocentesca e novecentesca, per divenire il principio antistatualistico di autoregolazione incivilente più importante per il nostro futuro.
Quello che è essenziale oggi è inverare la presenza di forti “razionalità locali collettive”, nel senso di relazioni fondate sulla fiducia e sulla reciprocità di prestazioni e di sostegni che fuoriescono dal consueto modello clientelistico diadico e verticale: sono, appunto, orizzontali, sono, appunto politiche e non clientelari.
Occorre delineare un nuovo intreccio tra azione sociale e obbligazione politico-legale: l’unione tra l’autorevolezza del nuovo stato non più verticistico della globalizzazione ma spungiforme e a confini variabili, e la forza vitale dell’ autorganizzazione delle persone associate è la chiave di volta della società civile “civilizzata”. Senza tutto questo la welfare society è impossibile.
Ma solo essa, tuttavia, potrà costruire un “futuro sostenibile”: è questa la funzione storico-generale dell’azione sociale riformista protesa alla creazione di un umanesimo cristiano, che ha infiniti punti di contatto con un socialismo di mercato che pragmaticamente conviva con una presenza pubblica nell’economia e nella società solo quando essa è indispensabile per riprodurla.
Essenziale è il raggiungimento della diminuzione costante della disuguaglianza e l’affermazione delle uguaglianze di opportunità e di esistenza, agendo con tutte le forme idoneee a realizzare tale fine.