David Cameron ci ha abituato ai colpi di teatro. Prima si è preso le prime pagine di mezza Europa lanciando la sua idea di “Big Society” per rilanciare il welfare anglosassone oltre le ormai rinsecchite sponde del welfare state tradizionale. Poi ha presentato una manovra economica draconiana, che in soli quattro anni porterà a tagli dolorosissimi (la bellezza di 94 miliardi di euro) e a una cura dimagrante nella pubblica amministrazione senza precedenti (500mila posti di lavoro in meno tra mancato turn over e licenziamenti veri e propri).
Ci si domanda, con buone ragioni, se la società inglese saprà reggere a questi interventi. Smobilitando il costosissimo sistema di protezione sociale (fatti salvi i capitoli della sanità e delle pensioni, che pare verranno risparmiati dai tagli) e spostando il baricentro verso le comunità locali e la società nel suo insieme, Cameron proverà a rimontare un modello nuovo di zecca, con tutte le incognite del caso.
Dovremo attendere naturalmente un po’ di tempo per capire quale sarà la reale portata della rivoluzione prossima ventura. Ma fin d’ora si intravede che in Gran Bretagna si sta giocando una partita di grande rilevanza, che presto o tardi riguarderà anche gli altri modelli di welfare europei, compreso quello italiano. La sfida vera è quella di costruire un sistema più equo, ovvero orientato al sostegno primario delle persone e delle famiglie in reali condizioni di disagio socio-economico.
Perché questo accada, sarà necessario metter mano definitivamente a uno dei capisaldi ideologici del welfare state: quello dell’universalismo delle prestazioni. Ovvero all’idea (nata proprio nel contesto anglosassone, da dove grazie al famoso “rapporto Beveridge” prese il via l’idea stessa di un sistema di welfare) che i servizi e alcuni trasferimenti in denaro debbano essere per tutti, senza distinzioni di reddito.
Storicamente questa concezione di tipo universalistico trovava ragione nella necessità di coinvolgere nei benefici anche la classe media, senza il cui consenso è notoriamente impossibile governare. Alla lunga, però, questo tipo di accordo implicito tra interessi contrapposti ha portato a risultati non esaltanti, con una spesa finanziata sempre più a debito e una capacità di riduzione dei problemi sociali sempre meno efficace.
La strada che si apre ora è quella di passare a quello che potremmo definire un “universalismo selettivo e pluralista”, ovvero a un sistema di welfare che se da un lato continua a garantire il carattere pubblico dei servizi (con la costruzione di reti di fornitori pubblici e privati al posto del tradizionale monopolista pubblico), dall’altro non è più in grado di garantire quella parte di trasferimenti o di servizi gratuiti indirizzati alla totalità della popolazione senza distinzioni di reddito.
Senza questo cambio di passo, i tagli non potranno che essere lineari, con la conseguenza inevitabile che i redditi più bassi si troveranno a stare sempre peggio. Chiedere invece ai redditi medi e medio alti di partecipare in maniera crescente al costo di servizi attualmente gratuiti è l’unico sistema per garantire che questi stessi servizi possano resistere alla mannaia dei tagli. Così come sarebbe serio intervenire anche sul fronte dei trasferimenti.
Un caso esemplare ce lo fornisce nel nostro paese l’assegno di accompagnamento, riservato ai grandi invalidi totalmente non autosufficienti. Si tratta di una misura attualmente a disposizione di chiunque si ritrovi in questa condizione, senza limiti di reddito. A quale principio di giustizia può essere riferibile un intervento che trasferisce la stessa cifra (poco meno di 500 euro al mese) all’operaio, all’impiegato, all’imprenditore e al professionista? Non sarebbe più equo e giusto stabilire un sistema variabile, con una cifra decrescente al crescere del reddito disponibile, che si annulla oltre un certo livello?
Un welfare selettivo, che non smette di garantire i servizi facendoli però pagare in modo progressivo al crescere del reddito. Garantendone dunque la gratuità per i redditi medio-bassi, ai quali soli vengono garantiti anche i trasferimenti in denaro (fatte salve, ovviamente, le pensioni). Questa appare la modalità di intervento più razionale e socialmente giusta per garantire una continuità riformista ai sistemi di welfare. L’alternativa è il taglio della spesa “senza se e senza ma”. Un taglio forse efficace per ridurre il debito pubblico, ma assai rischioso per le conseguenze che può avere rispetto all’obiettivo della pace sociale.