L’avevamo preannunciato parecchio tempo fa, ora c’è la conferma: dati alla mano. In un report separato sulla situazione europea, Simon Ward della Henderson Global Investors conferma che “gli indicatori dell’eurozona stanno mostrando divergenze senza precedenti storici, con la massa monetaria M1 che sta schizzando a doppia cifra in Germania mentre si sta contraendo in Spagna, Irlanda e Grecia”.
Standard&Poor’s conferma che la Germania è stata in grado di cogliere le opportunità del recupero economico attraverso i mercati emergenti, lasciandosi di fatto dietro le spalle l’Europa del Sud. Le esportazioni tedesche – per la gran parte automobili e macchinari – pesano per il 47 per cento di tutte le merci europee verso la Cina. Al secondo posto, sideralmente distante, la Francia con il 10 per cento. “La Germania sta recuperando brillantemente – ha dichiarato Jean-Micheal Six di S&P -, i suoi prodotti non sono sensibili a livello di prezzo al tasso di cambio. Sta entrando in un circolo virtuoso dove l’export guida la spesa capitale, portando a un aumento dei consumi dopo anni di quasi crescita zero”.
Sempre per Standard&Poor’s, la Bce potrebbe utilizzare la richieste tedesche per bloccare l’inflazione, creando un serio banco di prova per i paesi europei ancora intrappolati nella recessione: “Potrebbe esserci un secco picco al rialzo del tasso di cambio dell’euro nei prossimi dodici mesi”, ha confermato Six. Questo potrebbe significare una spaccatura netta, visto che la Francia, che aveva retto meglio degli altri paesi latini, sta perdendo quote di export e sta affrontando un autunno di grande tensione sociale: gli scioperi di massa stanno costando qualcosa come 400 milioni di euro al giorno alla collettività.
Il paradosso per l’eurozona è quindi quello rappresentato dal fatto che i benefici della ripresa tedesca si facciano sentire con maggiore lentezza rispetto ai guai che un aumento dei tassi di impronta teutonica porterà con sé. Per Jean-Micheal Six ci sono echi della crisi dei tassi del 1992 quando la stretta voluta da Francoforte per raffreddare la vampata interna, causò danni per altri Stati, tali da portare alla quasi rottura dello Sme.
Il capo della Bundesbank, Axel Weber, sta mordendo il freno: già a maggio ha criticato severamente la scelta della Bce di comprare il debito irlandese e del cosiddetto Club Med mentre ora il suo mantra è quello di una ritiro rapido della misure di emergenza. Insomma, ora che sta vivendo un boom del credito e una stagione di disoccupazione mai così bassa dai primi anni Novanta (7,5 per cento), la Germania sembra pronta a schiacciare ulteriormente sull’acceleratore: ha ingoiato ciò che non voleva per mesi, ora sta per chiedere il conto.
Questo anche perché, stando al giudizio di Mohamed El-Erian, amministratore delegato di Pacific Investment Management, “la Grecia molto facilmente andrà comunque in default entro i prossimi due anni e mezzo poiché i tagli al budget non saranno comunque sufficienti a ridurre il deficit nazionale”. Di più, per El-Erian, parlando a una conferenza organizzata dall’Economist a New York, “è interesse della Grecia quello di andare in default, almeno fino a quando persiste il rischio di contagiare altri Stati europei e resta possibile percorrere questa opzione attraverso una ristrutturazione ordinaria e un repricing per riconquistare competitività”. Le alternative stile “lost decade” latinoamericane degli anni Ottanta, “non permettono crescita e generazione di posti di lavoro”.
D’altronde, due giorni fa l’extra rendimento chiesto dagli investitori per acquistare obbligazioni greche rispetto al benchmark del Bund tedesco ha toccato il livello più alto da due settimane a questa parte. 717 punti base o 7,2 per cento sui decennali.
Per Orlando Green, vice-direttore della capital market strategy a Credit Agricole a Londra, "le obbligazioni greche sono andate sotto pressione immediatamente dopo i commenti di El-Erian: la situazione di breve termine, infatti, non appare male ma c’è un lungo viaggio di fronte da compiere".
Per Giada Giani, economista senior di Citigroup, "l’aggiustamento fiscale di cui la Grecia ha biosgno è senza precedenti. C’è un limite nell’ammontare della contrazione fiscale che una nazione può reggere e supportare prima che questa divenga autolesionista e potenzialmente controproducente per la crescita economica in modo tale da compromettere anche un solo singolo miglioramento".
E il resto del cosiddetto Club Med? A giorni parleremo della Spagna con nuovi dati e indicatori, per ora mi limiterò ad aprire una finestra sull’Italia e lo faccio prendendo spunto dalla polemica scaturita dopo le dichiarazioni di Sergio Marchionne a "Che tempo che fa". Il quale, ovviamente, ha usato un’asprezza verso l’Italia fastidiosa, visto il debito che Fiat deve riconoscere al nostro paese a livello di cassaintegrazione, rottamazioni, incentivi e quant’altro: senza la tanto vituperata Italia, ad Arese sarebbe sbarcata Ford tanti anni fa (e sarebbe finalmente nata la concorrenza).
Detto questo, alcuni appunti di Sergio Marchionne sul sistema paese sono sacrosanti, non tanto a livello salariale quanto riguardo il peso della burocrazia, del fisco, della giustizia, della rigidità delle relazioni industriali, della produttività e del costo del lavoro, basti vedere come siamo classificati a livello Ocse. Non serviva il vate di Mirafiori, però, per scoprirlo:
(INVESTIMENTI ESTERI DIRETTI IN ITALIA DAL 1970 AL 2008 ESPRESSI IN MILIARDI DI DOLLARI. FONTE BANCA MONDIALE)
bastava andare sul sito della World Bank e alla sezione "Develpoment indicators" per scoprire l’andamento dell’indice FDI (Foreign Direct Investments, investimenti esteri diretti, il principale indicatore del reale stato di salute di un’economia e dell’affidabilità e attrattività business di un paese) dell’Italia dal 1970 al 2008. Se nel 1970 eravamo a quota 624 milioni di dollari, scopriamo che il vero, primo picco è del 1988 con 6,8 miliardi di dollari, sceso a 6,4 solo due anni dopo e poi rimasto "flat" o con lievi picchi al ribasso fino al 2000, quando si toccarono i 13 miliardi di dollari.
Cinque anni dopo, ovvero nel 2005, la crescita raggiunse i 20 miliardi di dollari, destinati a salire fino al massimo di 40 miliardi di dollari, il doppio, nel 2007: poi, il crollo. Nel 2008, infatti, l’indicatore FDI toccava quota 15 miliardi, un crollo netto da un anno con l’altro pari a un -94 per cento mentre in base alle previsioni dell’Economist per il 2009
(INFLOWS PREVISTO DI INVESTIMENTI ESTERI DIRETTI NEL 2009 ESPRESSI IN MILIARDI DI DOLLARI. FONTE THE ECONOMIST)
l’Italia risaliva a quota 30 miliardi, una vera e propria altalena a cavallo delle elezioni politiche che due anni fa portarono a Palazzo Chigi con una maggioranza parlamentare schiacciate Silvio Berlusconi e la sua coalizione, nei fatti vista come business friendly visto che al crollo, nel piano della crisi globale, è seguita l’anno scorso una crescita pari al 76 per cento in più rispetto all’anno precedente, almeno stando alle previsioni offerte dall’Economist.
Cosa desumiamo da queste tabelle e questi dati? Primo, l’Italia attrae pochi, pochissimi investimenti esteri diretti, basti guardare i raffronti con gli altri grandi paesi industrializzati e questo è dovuto a quei fattori prima elencati e che di fatto sono anche le debolezze strutturali denunciate da Sergio Marchionne, seppur in maniera intellettualmente sgradevole.
Se a questo uniamo il fatto che l’area che maggiormente andrebbe sviluppata nel paese, quel Mezzogiorno al centro da decenni di politiche emergenziali e assistenziali e che potrebbe invece diventare una Silicon Valley con la politica dei distretti, è in mano alla criminalità organizzata e alle sue leggi di mercato, fattore che più di ogni altro allontana gli investimenti reali, il quadro è davvero sconfortante.
Secondo, questo picco tra il 2008 e il 2009, nei fatti, dimostrava come il governo di centrodestra fosse riuscito a imporre un’immagine di sé business friendly e impostata al fare, atteggiamento che piace a chi investe: l’instabilità di questi giorni, la quasi certa crisi di governo, la rottura dei finiani, cosa rappresenterà? Come peserà su questa voce così importante per l’economia del paese? Una cosa è certa, se Emma Marcegaglia ancora due giorni fa è tornata a definire controproducente per la stabilità del sistema l’ipotesi di elezioni anticipate, una ragione ci sarà.
Cosa accadrà? A occhio e croce, un bel governo tecnico per la riforma elettorale e il contrasto alla crisi economica rappresenta un’ipotesi che piace a molti, in Italia, in Europa ma anche Oltreoceano. E, sbaglierò ma anche dalle parti di sergio Marchionne e casa Fiat non sarebbe così sgradito, anzi. Che poi questa ipotesi coincida con il bene reale del paese, è un altro discorso. Ma, per favore, non evocate i complotti e le politiche eterodirette del 1992. Non ancora, almeno…