Non facciamoci illusioni: anche nel 2011 l’Italia non crescerà più dell’1%. Parola del Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Anzi, già questo risultato dovrà essere conquistato con non poco sforzo: rispetto ai primi sei mesi del 2010, infatti, è tutt’altro che scontato che l’Italia possa far conto sul traino dell’export o su quello dei consumi delle famiglie che ristagnano, spiega il numero uno di via Nazionale, “per la diffusa incertezza nel futuro”. Insomma, in questa cornice non stupisce l’attesa, quasi febbrile, per il cosiddetto decreto sviluppo, il “salvagente” che Giulio Tremonti ha promesso ai colleghi ministri al momento di far loro ingoiare l’amara medicina di una finanziaria “europea” a suon di tagli.
In realtà, l’attesa rischia di tradursi in una delusione. L’Italia, e non è detto che sia un male, non può permettersi, nemmeno in via accademica o virtuale, di immaginare una strategia alla Ben Bernanke, cioè una massiccia azione di “quantitative easing”, con l’obiettivo di rimettere in moto l’economia con immissioni oceaniche di denaro a tasso zero: ce lo impedisce l’Europa, obbligata a difendere la credibilità dell’euro con una politica di feroce contenimento dei deficit pubblici; ce lo vieta il buon senso, visto che il debito pubblico italiano resta, in assoluto, il terzo del pianeta nonostante l’economia italiana non sia la terza del mondo. La crisi da mancata crescita dell’economia italiana, poi, è così radicata nel tempo da non poter essere curata con una sola medicina o da un solo medico, come ammonisce Mario Deaglio. Occorrono, semmai, mosse coerenti e convergenti di tutti gli attori, pubblici e privati.
Il decreto sviluppo, perciò, rischia di essere una boccata d’ossigeno o nulla più. Capace di sostituire, almeno in parte, quel che fu l’effetto dello scudo sui conti pubblici. Magari in attesa di qualche altra misura straordinaria che ci consenta di galleggiare in attesa di una terapia “forte”. Magari un’altra ondata di privatizzazioni: Franco Reviglio, ex presidente dell’Eni, ma anche battagliero riformatore di una municipalizzata quale l’Aem Torino, calcola che i beni privatizzabili sono pari al 138% del Prodotto interno lordo. In teoria, dunque, c’è spazio per dare una svolta ai problemi di sempre. Ma, a giudicare dall’accoglienza riservata alle parole di Sergio Marchionne, l’Italia non sembra pronta alla sterzata nonostante all’orizzonte si profili il rischio di altri 500 mila disoccupati in più, tanti quanto ne prevede lo stesso Draghi.
Detto ciò, è inevitabile che si annunci aspra battaglia attorno ai sette miliardi che il ministro dell’Economia ricaverà dal “fondo Letta” (modifiche di spesa, più rinvii che tagli, per 1,7 miliardi), dalle entrate sui giochi (il ministro “tifa” perché si conservi il mega montepremi del superenalotto) e, soprattutto, dall’asta per le frequenze destinate alla telefonia mobile. Quest’ultima voce, attorno ai tre miliardi, merita un cenno in più.
Nel Regno Unito, nonostante i tagli feroci al budget, David Cameron è riuscito a trovare i mezzi per finanziare la “banda superveloce” che andrà ad aggiungersi alla banda larga già esistente in quantità assai più elevata che in Italia. Lo sviluppo è stato finanziato dalla cessione dello spettro di frequenze più pregiate, quelle su cui si svilupperanno i servizi degli smartphone, oltre a quelli dell’iPad, con le possibili ricadute per l’economia digitale.
In Italia, questa fetta di cielo è stata finora affittata a prezzo simbolico al mondo della tv, che pure può trasmettere in altro modo, assai meno costoso. Logica vorrebbe, chiede il neo ministro Paolo Romani, che una bella fetta di questi quattrini resti nel mondo delle tlc, consentendo finalmente il decollo della Ngn, cioè la nuova rete di trasmissioni cui potrebbe partecipare sia Telecom Italia che i concorrenti oltre alla Cdp e altri partner, italiani e stranieri. Ma Tremonti deve in qualche maniera far fronte alle richieste della pubblica istruzione e del mondo della cultura. E, più ancora, alla necessità di rifinanziare gli ammortizzatori sociali.
Il risultato? La strada è stretta. Inutile farsi troppe illusioni, anche per il clima di fibrillazione politica permanente in cui si trascina la crisi italiana. Speriamo che ci sia lo spazio per un gesto di coraggio, votato allo sviluppo. Uno solo, ma nella direzione di “quel circolo virtuoso di consumi evoluti e di investimenti lungimiranti” invocati da Draghi, gli unici che possono farci sperare in un futuro migliore. Il resto, servirà solo per galleggiare ancora per un po’.