Nei primi sei mesi del 2010 le uscite in conto capitale del Tesoro si sono ridotte del 20,2% in termini tendenziali. In particolare, gli investimenti fissi lordi sono calate del 18,3%. Insomma, Giulio Tremonti ha realizzato il miracolo di far calare, seppur di poco, il rapporto tra deficit e Pil (dal 6,3% al 6,1%) nonostante il calo delle entrate fiscali.
Ma l’arcano si spiega con il taglio agli investimenti, scelta che mette un’inquietante ipoteca sulle possibilità di ripresa dell’economia italiana, Paese in cui circa la metà del Pil dipende dalla mano pubblica. Anche per questo è difficile non condividere il pessimismo di Fabrizio Saccomanni, direttore generale della Banca d’Italia, che ha sottolineato “i segni di debolezza della ripresa”: sulla base delle proiezioni più recenti, ha detto nel corso dell’audizione parlamentare sulla Dfp (la Decisione di Finanza Pubblica), le proiezioni di crescite previste dal documento (l’1,2% per il 2011) “appaiono leggermente ottimistiche”.
I motivi per esser cauti non mancano di sicuro: la guerra tra le valute che, per ora, segnala un’innaturale forza dell’euro su dollaro, yen e yuan che non potrà non incidere sui flussi dell’export, a partire alla locomotiva tedesca che, al contrario dell’Italia, ha aumentato gli investimenti nel 2010; la situazione critica dei confini fragili dell’eurozona, Irlanda e Portogallo, che potrebbero non reggere alla pressione della speculazione, oggi troppo impegnata a far soldi sul carry trade consentito dalla Fed (mi indebito sul dollaro a tasso poco sopra lo zero e compro reals brasiliani con un rendimento reale superiore al 6-7%) per occuparsi delle miserie di Dublino o Lisbona; la riforma del patto di stabilità, che impone nuove misure di austerità, l’opposto dei sospirati sostegni invocati da imprese e sindacati. A tutto questo va aggiunto l’effetto, difficile da misurare ma comunque devastante, della paralisi dell’attività politica negli ultimi mesi, più concentrata sul mercato immobiliare di Montecarlo che sulle scelte per affrontare i mercati in maniera adeguata.
A complicare il quadro c’è il comportamento, obbligato, delle maggiori imprese. Basti, al proposito, l’esempio di Fiat. Lo scorso gennaio l’azienda aveva annunciato che, dopo la gelata del 2009 quando erano scesi del 32% a quota 3,38 miliardi, gli investimenti sarebbero risaliti a 4,5 miliardi: sempre meno dei 4,97 miliardi del 2008, ma comunque sufficienti a metter l’azienda in condizioni di sfruttare la possibile ripresa del 2011. Ma le cose sono andate in maniera diversa: il calo delle vendite è proseguito in maniera massiccia dopo l’estate e promette di proseguire fino alla metà dell’anno prossimo. “In queste condizioni – ha detto Sergio Marchionne al salone di Parigi – abbiamo deciso di conservare le munizioni”.
Scelta giudiziosa, anzi obbligata. Ma i principali concorrenti, almeno quelli che possono contare su ben altre “munizioni” finanziarie, stanno operando in maniera ben diversa, moltiplicando tra l’altro gli sforzi per entrare nel segmento delle utilitarie, il terreno in cui Fiat vanta una leadership storica: perfino la Opel, grande malata dell’auto europea, ha annunciato il decollo del progetto di un’utilitaria che, dal 2013, sfiderà la 500. Per carità, il Lingotto ha altre carte da giocare, soprattutto sull’altra riva dell’Atlantico. Ma è difficile che il contributo Fiat al Pil possa riservare gradite sorprese.
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Insomma, il dibattito sulla produttività non parte sotto auspici favorevoli: meno si investe, meno si produce, più cala la produttività (-2,7% tra il 2007 e il 2009, addirittura -3,9% per l’industria). E più, potremmo aggiungere, rischia di salire il costo del lavoro per unità di prodotto, già aumentato del 20% negli ultimi dieci anni, mentre la Germania lo ha ridotto di dieci e la Francia di otto. È questo il sintomo più grave della malattia che ha colpito l’economia del Belpaese dall’introduzione dell’euro in poi. Venuta meno la valvola di sfogo della svalutazione, la società italiana non è stata in grado di correggere gli handicap che ne determinano l’inferiorità rispetto ai partners concorrenti: burocrazia, fisco pesante, carenza di infrastrutture, costo dell’energia più elevato, minori investimenti in R&S. In particolare, rileva il professor Fulvio Coltorti, da sempre a capo dell’ufficio studi di Mediobanca, a danno delle imprese tricolori gioca un distacco abissale della pressione fiscale: il 48,3% contro una media effettiva del 25,3% a carico delle imprese tedesche.
Certo, a questi ostacoli “fuori” dalla fabbrica, vanno aggiunti la scarsa flessibilità e i contratti ingessati che pesano “dentro”. Anzi, di qui si deve partire per un possibile recupero. Ma, nota ancora l’ufficio studi di Mediobanca, il valore aggiunto per dipendente in Italia non è poi così lontano da quello tedesco: 52,3 contro 59,6. Addirittura il margine operativo netto per dipendente (che segnala il profitto industriale) è superiore in Italia: 23,3 contro 19,6. Per giunta, l’industria italiana viaggia a una doppia velocità: dal 1999 al 2008 il contributo al reddito nazionale della Piccola e media impresa è stato di 29,6 miliardi contro i 12 della grande impresa.
Il risultato? Il calo degli investimenti non promette nulla di buono. In particolare, per le grandi imprese attive sul fronte dei beni di investimento emerge un nuovo eccesso di lavoratori rispetto al fatturato. Salvo correzioni di rotta “politiche” risultano inevitabili nuovi tagli per recuperare la soglia di produttività precedente alla crisi. Ma tutto questo rischia di servire a poco o a nulla (così come la battaglia per contrastare l’aumento del rapporto deficit/Pil) senza un intervento strutturale sul circolo vizioso tra fisco e lavoro. E una politica, finalmente virtuosa, sul fronte dell’energia e delle infrastrutture. Al lavoro: la vacanza politica è durata troppo.