“Bisogna tornare a fare politica industriale”, sostiene Romano Prodi, tornato in pubblico per la presentazione del libro di Marco Fortis ed Alberto Quadrio Curzio su Dieci anni di Economia italiana. Beninteso a livello europeo, mica italiano. Per due motivi: non ledere le norme sulla concorrenza, alla base del mercato comunitario. Ma, soprattutto, perché in cassa non ci sono risorse. A meno di non mettere a garanzia le riserve auree, tutt’altro che disprezzabili: 2.841 tonnellate, cioè il quarto tesoro aureo del pianeta. Peccato che quei lingotti siano la garanzia della presenza italiana nell’area euro, come tali sottoposti al controllo di Francoforte. Insomma, non possiamo disporne liberamente. A meno che, vecchia idea di Prodi rilanciata più volte da Quadrio Curzio, non sia l’Europa politica a mettere il suo oro a garanzia di un grande prestito comunitario al servizio dello sviluppo. Ma i tedeschi non ci sentono: prima l’equilibrio dei conti, poi ne riparleremo.
“Bisogna tornare a fare politica industriale”, ripete da tempo Sergio Marchionne. Non è questione di quattrini, precisa, ma di regole e di volontà politica. Certo, un po’ di investimenti pubblici in ricerca e sviluppo non guasterebbero, ma l’Italia ha bisogno di ben altro per tornare ad attrarre investimenti. Non è un caso, infatti, che il tessuto produttivo italiano, anno dopo anno, abbia perduto quasi tutte le grandi imprese private. Ci vorrebbe un grande progetto su cui concentrare le risorse, per tante o poche che sano. Guardate il Regno Unito: David Cameron ha varato una finanziaria “lacrime e sangue”, destinata ad abbassare il deficit pubblico di nove punti percentuali in tre anni. Ma i quattrini incassati dalle tv sono stati destinati alla creazione della rete a superbanda larga che dovrà garantire un vantaggio competitivo all’economia inglese basata sull’efficienza dei servizi.
Sono due esempi tra i tanti per ricordare una verità perfino banale: l’Italia ha necessità di interrompere un lungo ciclo di stagnazione che ci fa crescere meno degli altri quando le cose vanno bene, fare peggio degli altri negli anni di crisi. E recuperare assai più lentamente degli altri quando, come accade oggi, si profila la possibilità di azzerare i guasti di tre anni di mancata crescita. Eppure, causa la paralisi del quadro politico interno, il ministro dell’Economia non ha potuto far di meglio che varare un patto di stabilità, quasi che si trattasse di difendere una situazione invidiabile, non una casa più vulnerabile della povera Domus gladiatori di Pompei.
È questa la cornice dell’ennesima operazione tappabuchi di cui non è certo responsabile il ministro dell’Economia. Lui, alle prese con la gestione del debito pubblico in un quadro internazionale sempre più insidioso, ha una priorità assoluta: il varo della Finanziaria, con il rispetto contabile di quanto promesso a Bruxelles. Il maxiemendamento altro non è che il prezzo da pagare per evitare stop pericolosi all’iter della manovra prima di una stagione ancor più difficile sul piano politico.
E, probabilmente finanziario. In questa chiave saltano, con buona pace del presidente della Repubblica, sia le priorità che le scelte mirate. Anche perché, per poter scegliere, occorre sapere quel che si vuole: più assistenza? Più welfare? O più sviluppo? Certo, nella Costituzione esiste “l’imperativo della solidarietà”. Ma è più solidale un quadro di regole che spinga le aziende ad investire o il sostegno, acritico, ai posti di lavoro destinati a produrre solo perdite?
Ha ragione Giorgio Napolitano: regna la confusione. Peccato che non sia quel fecondo disordine sotto il cielo celebrato da Mao Tze Tung come stimolo creativo. Semmai è lo specchio di una società ingessata, senza timore per il ridicolo. Che senso ha una misura sociale come il 5 per mille o l’abolizione del ticket sanitario per i prossimi 5 mesi? Che succederà a fine maggio? È prevista la scoperta dell’elisir di lunga vita, zampillerà nuovo petrolio dalla val di Sangro oppure più prosaicamente ci si appresta a lasciare il cerino al governo che verrà dopo le elezioni?
Salta intanto il bonus del 55% per la riqualificazione energetica degli edifici. Forse è un grave errore, forse in questi anni non sono mancati gli abusi dietro l’euforia per l’economia verde. Ma misure di questo genere hanno senso solo nel lungo termine, per consentire alle aziende ed agli artigiani di investire in impianti ed in formazione. La cosa peggiore che si può fare è mettere in discussione il provvedimento ad ogni stormir di foglia salvo riproporlo alla prima imboscata utile. È l’opposto, insomma, di una politica industriale che richiede: 1) leadership; 2) capacità di decidere; 3) coesione nazionale sull’obiettivo dello sviluppo. Tre qualità che ci mancano.
Le coperture per il provvedimento arriveranno dall’asta sulle frequenze per le telecomunicazioni (2,4 miliardi). Ma solo una piccola fetta della torta, il 10 per cento, finirà per finanziare la rete in fibra per la banda larga. Si pensa a spendere piuttosto che investire, insomma, ma per fortuna che ci sono i giochi e la lotta all’evasione, che a parole trova tutti d’accordo… Non tutto è da buttare, per carità. Grazie ai (pochi) soldi in arrivo, l’università può respirare. C’è pure un voucher fiscale come credito d’imposta per le imprese che affidano attività di ricerca e sviluppo a università o enti pubblici di ricerca. E, com’era necessario vengono confermati i soldi per gli ammortizzatori sociali. Ed è prevista una boccata d’ossigeno per comuni e regioni. Cose sacrosante, che però non bastano a cancellare una sensazione: la coperta è sempre più corta. E se non si cambia rotta, chiunque governi l’anno prossimo andrà peggio.