Come avrete potuto constatare da soli, in questi giorni i giornali e le televisioni parlano di cose di cui noi parliamo da almeno due mesi: meglio tardi che mai, alla faccia delle accuse di pessimismo catastrofista di qualche impenitente maestrino. Il problema è che guardare la punta dell’iceberg irlandese, ormai in default e pronto – anche per le pressioni tedesche e britanniche, esposte pericolosamente con le banche irlandesi – a presentarsi con il cappello in mano all’Ue, potrebbe risultare pericolosamente fuorviante. Ovvero, delimitare il perimetro di una crisi del debito che invece non ha ancora cominciato a colpire davvero.
A meno che la Bce non prenda rapide e serie contromisure, infatti, l’istituto di Francoforte rischia di distruggere la moneta che è invece chiamata a gestire, di fatto spalancando una catastrofe politica all’interno dell’Unione. Se malgestita, infatti, la situazione irlandese potrebbe rapidamente diventare una versione sovrana del Credit Anstalt, la banca austriaca che fece traballare il sistema finanziario europeo nel 1931, mandando sinistri tremori a Londra e New York e creando le condizioni per una seconda fase della nuova Grande Depressione, quella politica.
Insomma, la crisi irlandese potrebbe sottendere la rivisitazione dell’eurozona così come la conosciamo. La pensa così, ad esempio, Jacques Cailloux, capo economista per l’Europa di Royal Bank of Scotland: «La Bce capisce il concetto stesso di contagio? Se questa situazione non è abbastanza grave per creare preoccupazione riguardo un contagio finanziario, quale potrebbe esserlo? La mancanza di azione da parte della Bce porta con sé la domanda riguardo la capacità stessa dell’istituto di adempiere al suo mandato di stabilità finanziaria».
Siamo, in effetti, alla logica della cordata di alpinisti. Nella natura stessa dello European Financial Stability Facility (EFSF), il piano di salvataggio permanente dell’Unione, ritroviamo infatti sempre meno stati solventi legati in cordata e costretti a reggere il peso di un sempre maggior numero di paesi insolventi che zavorrano la spedizione. Una situazione simile, se davvero l’Irlanda chiederà l’accesso al programma di salvataggio, farà detonare la credibilità politica dell’eurozona innescando una reazione a catena, destinata a partire dalla penisola iberica in tempi molto rapidi. Ma andate a spiegarlo ad Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, la cui delicatezza politica è pari a quella di un elefante in una cristalleria: parlare di default sovrani e haircut dei rendimenti obbligazionari in una congiuntura simile è pari a procurarsi un taglio profondo di fronte al Conte Dracula.
I mercati sono assetati e se persino Jean-Claude Trichet ha sentito il bisogno di intervenire per censurare questo atteggiamento, la situazione è davvero seria. A certificarlo, poi, ci ha pensato il buon Wolfgang Schauble, ministro delle Finanze tedesco, con la sua irresistibile battuta, ovvero il fatto che l’impatto sui bond esistenti sarebbe nullo visto che il meccanismo di salvataggio con condivisione da parte dei detentori di obbligazioni scatterà solo nel 2013: nessuno, sui mercati, ha degnato nemmeno di una risata una distinzione simile.
Per Marco Annunziata di Unicredit, infatti, «questa dichiarazione è un misto capace di togliere il respiro di irresponsabilità suicida e incoerenza farsesca. Se infatti da qui al 2013 Grecia, Irlanda e Portogallo saranno ancora in una situazione traballante, ogni nuovo debito emesso porterà con sé rendimenti esorbitanti. A quel punto l’Ue dovrà scegliere tra un’opzione di salvataggio aperto oppure rimangiarsi la promessa che il debito esistente non dovrebbe essere ristrutturato. Gli elettori-contribuenti tedeschi saranno felici di pagare tasse più alte per salvare i loro vicini spendaccioni?».
Lo scorso maggio bastò l’annuncio di un piano di salvataggio congiunto Ue-Fmi per i debitori dell’eurozona per calmare gli spreads e consentire alla Germania un picco dell’output economico – con un crescita lorda annualizzata del 9% nel secondo trimestre – che fece gridare al miracolo del salvataggio finale dell’unione monetaria. Così non è stato e questa volta occorrerà mettere sul tavolo denaro reale. Nonostante questo il premier irlandese, Brian Cowen, continua orgogliosamente (o irresponsabilmente?) a negare la necessità di un salvataggio: «Abbiamo fondi sufficienti fino al prossimo luglio», ha dichiarato pur sapendo che la capacità di finanziamento per le banche irlandesi è evaporata e con sé i finanziamenti alle imprese.
Nei fatti, i cosiddetti “colloqui tecnici” tra Dublino e Ue sono già in atto e per Barclays Capital «è questione di giorni l’annuncio di un accesso dell’Irlanda all’EFSF per 80-85 miliardi di euro». Ma torniamo agli alpinisti in cordata. Il Portogallo, infatti, è in condizioni peggiori dell’Irlanda, visto che il debito totale è pari al 330% del Pil. L’attuale deficit corrente è vicino al 12% del Pil, mentre l’Irlanda sta avvicinandosi a un surplus. Inoltre, le banche portoghesi dipendono dal finanziamento estero per coprire il 40% degli assets.
Per un decennio, il paese ha vissuto in uno stato di slump permanente con l’aggravante di una valuta sopravvalutata: le ondate di austerity poste in essere non sono riuscite a stabilizzare il deficit fiscale e oggi gli ex ministri del paese parlano chiaramente della necessità di un salvataggio da parte di Ue e Fmi. Con numeri simili è molto difficile pensare che il Portogallo possa evitare di precipitare in un vortice di tipo irlandese e questo porterà con sé un conto cumulativo di salvataggio Ue-Fmi pari a circa 200 miliardi di euro: insomma, l’EFSF sarà dissanguato e portato ai suoi limiti di credibilità.
Detto fatto, a quel punto, il focus dei mercati si sposterà istantaneamente sulla Spagna, dove la crescita economica si è impantanata a 0 nel terzo trimestre, la vendita di auto è crollata del 38% in ottobre, il taglio salariale del 5% non ha ancora cominciato a far sentire il suo peso sulla domanda interna e, soprattutto, 1 milione di case invendute continuano a restare in pancia a un mercato immobiliare bloccato. Il problema non è lo stato spagnolo in sé, il vero tallone d’Achille è rappresentato dal debito corporate che è ormai al 137% del Pil e dalle somme che vanno ripagate ai creditori esteri ogni trimestre.
I rischi, mi pare, sono ovvi: a meno che le nazioni forti dell’Ue non riescano a raggranellare denaro fresco per far crescere il collaterale del fondo di salvataggio, i mercati non crederanno alla capacità dell’EFSF di salvare anche la Spagna. Pensate che il Bundestag tedesco voterà a favore di nuovi fondi di salvataggio? E gli olandesi, costretti a subire il ricatto politico alla Tweede Kamer da parte del populista anti-Ue, Geert Wilders, ben felice di usare l’opzione anti-salvataggio per scatenare una crisi e andare al voto? E l’Italia, la nostra cara Italia? Saremo in grado e volenterosi di offrire più denaro per un triplo salvataggio di Irlanda, Portogallo e Spagna? Cosa ne pensa Giulio Tremonti, alla luce di un debito pubblico al 115% del Pil, il terzo al mondo e con le sole banche francesi esposte per 476 miliardi di euro al nostro debito (dati della Bis)?
Certo, siamo messi meglio dei nostri tre partner periferici, ma la crescita è in stallo, l’output industriale è sceso del 2,1% in settembre e il governo emana sinistri scricchiolii giorno dopo giorno, anzi ora dopo ora. In questa situazione, la Bce rappresenta l’ultima linea di difesa, l’ultima trincea. Può evitare l’immediata crisi irlandese acquistando bond di Dublino, ma sta compiendo lo stesso errore politico compiuto nel luglio del 2008, ovvero drenando liquidità ed eliminando tutte le operazioni di emergenza. Certo, è pur vero che la Bce sta fornendo all’Irlanda e al Club Med ossigeno attraverso prestiti illimitati alle loro banche locali che usano quei soldi per un carry-trade interno di acquisto del debito governativo ed è altrettanto vero che sempre la Bce è giustamente spaventata dal fatto di varcare la linea che divide la politica monetaria da quella fiscale attraverso il finanziamento del debito del tesoro.
Il problema è che siamo finalmente allo showdown del grande conflitto di interesse che vede la Bce null’altro che una filiale in grande della Bundesbank: se Francoforte stamperà moneta in stile Fed per puntellare il Club Med, la Germania conoscerà inflazione alle stelle (circa il 6%) e soprattutto la distruzione della fiducia tedesca nella moneta unica, aprendo le porte all’opzione di un’Europa a due velocità di cui abbiamo parlato qualche mese fa. Ormai siamo al conto alla rovescia, aggravato dalla sentenza della Corte costituzionale tedesca che potrebbe dichiarare illegittimo il salvataggio della Grecia e, quindi, precludere qualsiasi altro intervento tedesco a nuovi piani di emergenza. Di fronte all’ipotesi di vedere distrutto il miracolo tedesco post-riunificazione, pensate che Angela Merkel guarderà inerte qualche funzionario della Bce dare il via libera a una politica salva-Sud di quantitative easing? Io no.
L’Europa così come la conosciamo è agli sgoccioli, ciò che è stato incollato a forza ora torna, forzatamente, a disgregarsi. Dove andrà a posizionarsi l’Italia nella nuova geografia politico-monetaria non è dato a sapersi, ma dubitiamo che qualcuno correrà il rischio di accomunarci al Club Med più Irlanda, pena vedersi distrutto dal boom del nostro export grazie alla svalutazione dell’euro2 che adotteremmo come moneta una volta declassati. Con sommo dispiacere di Parigi e Berlino, staremo al tavolo dei “grandi”: l’occasione è storica, speriamo che la nostra classe politica e dirigente lo capisca e si dimostri, per una volta, all’altezza del compito assegnatole. Guardando all’attualità, le speranze non sembrano ben riposte.