Mentre risuona ancora l’allarme lanciato da Herman Van Rompuy sul pericolo di sopravvivenza che stanno correndo l’euro e l’intera Unione Europa, proseguono i colloqui tra il governo irlandese e l’Unione europea per mettere a punto un piano di prestiti per le disastrate casse di Dublino. Una strategia che Paolo Savona ritiene inefficace. E per evitare il peggio, secondo l’economista e Presidente del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, l’Italia dovrebbe prendere in seria considerazione l’ipotesi di uscire dall’euro.



Professore, si è discusso molto delle parole di Herman Van Rompuy. Lei condivide il suo allarme?

Pur non avendo l’autorevolezza del Presidente Van Rompuy, anch’io ho lanciato un allarme preciso: se si continua a trascinare la situazione, tamponando la crisi con decisioni che hanno come contropartita la riduzione della sovranità fiscale dei paesi, non risolviamo il problema di fondo che è quello dell’Unione politica, della comune responsabilità dei debiti pubblici che il Trattato di Maastricht erroneamente rifiutò. A quei tempi probabilmente non era possibile ottenere di più, ma oggi il tema si ripropone prepotentemente sul tappeto. Se si vuole, attraverso avanzi di bilancio pubblico, raggiungere il parametro del debito pubblico al 60% del Pil, tenendo conto che c’è chi parte dall’80%, chi dal 100%, chi dal 120% come l’Italia, allora stiamo condannando l’Europa a una crescente deflazione e disoccupazione che prima o poi porteranno alla rottura dell’Europa.



Dunque non sarebbe efficace il fondo europeo di salvataggio?

Credo di no: si tratterebbe di solidarismo “peloso”, come la carità “pelosa”. I fondi, infatti, vengono dati in cambio di politiche deflazionistiche. L’esitazione dell’Irlanda sul fatto di richiedere gli aiuti è legata proprio a questo fatto: per cercare di aggiustare i propri conti rischia di legarsi le mani.

Come si dovrebbe affrontare allora il problema dei debiti pubblici?

Non creando un fondo, ma “parcheggiando” presso un fondo i debiti pubblici in eccesso rispetto al 60% del Pil previsto dall’addendum del Trattato di Maastricht e quindi ristrutturare questo debito a lunga scadenza e a tassi appropriati in proporzione al debito pubblico che viene collocato. Dopo di che, una volta che tutti i paesi hanno una diretta responsabilità sul debito pubblico nella misura del 60% del Pil, si può ripartire con criteri di rigore accettabili.



 

Si parla anche della nascita di due monete europee, una più forte e un’altra più debole per i paesi periferici. È uno scenario secondo lei percorribile?

 

Rispetto a quel che ho detto, non credo ci sia molto scelta per dire se percorrerlo o meno. È meglio, a questo punto, che ogni paese abbia un suo schema su come uscire dalla situazione. Ognuno deve sapere cosa succede e cosa fare qualora si rompa l’Eurozona o addirittura l’Unione Europea. Quindi dovrebbe aver pronte altre alleanze, uno schema di intervento, garanzie da prestare ai mercati finanziari internazionali che altrimenti muoverebbero un attacco al debito pubblico facendolo crollare. Non si tratta quindi di un problema di scelta; il problema è che se non facciamo niente per colmare l’unione politica o dividerci completamente, le soluzioni tampone che si stanno individuando non possono funzionare.

 

Su Il Foglio lei ha scritto che l’Italia dovrebbe seriamente valutare l’ipotesi di seguire l’esempio del Regno Unito, che è dentro l’Unione Europea, ma fuori dall’euro.

 

È stata considerata una provocazione, ma non lo è. È una diagnosi che porta ad agire. Non possiamo aspettare che gli eventi si realizzino per reagire: io propongo di agire. Siccome abbiamo capito la situazione, abbiamo ormai esperienze di diverso tipo in questa materia, perché non capitalizziamo queste esperienze? Certo verremmo attaccati politicamente, come sta accadendo adesso all’Irlanda. La mia tesi è quindi: agiamo oggi finché c’è tempo. Non infiliamoci sempre più in una crisi di proporzioni notevoli e di prevedibili sbocchi.

 

Ci sarebbero quindi dei danni e degli svantaggi nell’immediato, ma questi sarebbero minori di quelli che si avrebbero nel continuare ad andare avanti con la stessa situazione?

Sì, ma ho molta fiducia negli italiani, perché sanno reagire di fronte a crisi gravi. Oggi gli viene ripetuto che la crisi non riguarda l’Italia, che siamo al sicuro, ma non è vero. Il problema, infatti, riguarda non un paese (l’Irlanda), ma il rischio di contagio, perché quando la speculazione riesce ad avere successo in un paese, inevitabilmente si sposta sugli altri più deboli. Quindi prima o poi arriverebbe all’Italia. Credo invece che una crisi grave spingerebbe gli italiani a comportamenti corretti. Ciò che si voleva ottenere con il vincolo esterno, quello di Guido Carli e di Maastricht, e che non abbiamo ottenuto (dato che abbiamo continuato a progredire con il debito pubblico e con l’economia che non cresce), tanto vale averlo con un vincolo interno, scegliendo esattamente quali politiche mettere in campo. Se si sbaglia, poi si pagherà, ma per lo meno la responsabilità sarà nostra, non degli altri. Oggi siamo in una situazione di “occupazione straniera”, sono gli altri che ci devono dire come ci dobbiamo comportare. Questo non è accettabile, non è dignitoso (non a caso nell’articolo su Il Foglio ho usato le parole “poco dignitoso vincolo esterno”).

 

L’euro, però, è forse il maggior fattore di coesione tra i paesi europei.

 

Il consenso intorno all’Unione Europea è diminuito drasticamente, tanto che ci sono stati addirittura dei referendum che hanno respinto il Trattato costituzionale. E io credo che proprio l’euro sia all’origine di questa perdita di consenso. Si tratta infatti di uno scudo protettivo che funziona se si è pronti ad accettare gli effetti deflazionistici e di disoccupazione che comporta.

 

Ma per qualcuno ha funzionato.

 

Se il paese cui fa riferimento è la Germania, questo dimostra che il meccanismo alla base dell’euro non è equo, perché Berlino beneficia di un cambio sottovalutato come la Cina, che gli garantisce un surplus di bilancia commerciale pari, in valore assoluto, a quello di Pechino.

 

(Lorenzo Torrisi)

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