La discussione in Italia in merito a un bisogno abitativo sempre più emergente va avanti da tempo, ma le risposte concrete effettivamente realizzate sono poche e insufficienti. La mancanza è anche di conoscenza: il dibattito pubblico generale ha fatto emergere ancora tanta confusione nella definizione stessa di una politica per la casa, anche a causa di una legislazione frammentata che non aiuta ad avere le idee chiare.
La necessità del Paese e delle maggiori città è quella di rispondere attraverso un’iniziativa pubblica o privata, profit o no-profit, al bisogno dell’abitare di tutte quelle realtà sociali, famiglie, studenti, professori, ricercatori, impiegati o immigrati, a condizioni economiche appunto “sociali”. Questo vuol dire dare la possibilità a queste categorie di affittare una casa a un costo che non superi il 30% del loro reddito, permettendogli una vita dignitosa, soprattutto nelle città più grandi dove il tenore e il ritmo di vita sono più elevati.
L’ampia fascia di persone coinvolte da questo bisogno è esattamente a metà tra chi è in grado di acquistare una casa in edilizia libera e chi invece è al di sotto della soglia di povertà. È una fascia ampia e diversificata a cui appartengono la maggior parte delle persone che oggi lavorano e vivono nelle nostre città. È la famosa “zona grigia”, la classe emergente del Paese che produce, che studia, che lavora nei servizi pubblici e che proviene dal Nord e dal Sud Italia o dall’estero e che lavora nelle nostre città.
Una fascia eterogenea che viene troppo spesso sfruttata dal mercato illecito degli affitti in nero: l’immigrato che si trasferisce in Italia per lavorare, le famiglie che vivono una condizione di disagio economico ma anche la badante, il muratore, l’artigiano, il cameriere, il giovane ricercatore che viene a lavorare a Milano, il poliziotto o l’impiegato. E ancora il vigile urbano o il vigile del fuoco, la donna che vive sola con il proprio figlio o le giovani coppie. Per questo è urgente mettere sul mercato un’offerta di case in affitto “sociale”, cosiddetta di social housing.
Ci sono persone poi che per poter acquistare una casa si affidano a una lista comunale e attendono che le Aler o le società pubbliche di edilizia popolare costruiscano le nuove case. Si registra però sempre di più da parte delle Regioni un’indisponibilità finanziaria per questa iniziativa, senza contare poi che la manovra finanziaria riduce ulteriormente questa disponibilità. Il rapporto tra la domanda di bisogno di case e l’offerta presente sul mercato è totalmente inadeguato: la realtà è che non ci sono più risorse economiche pubbliche per rispondere a questo fabbisogno.
Molti anni fa lo Stato destinava una quota importante alle politiche della casa tramite una tassazione degli stipendi che poi è stata eliminata. Oggi per le Amministrazioni regionali e comunali è giunto il momento di dare una svolta alla politica di edilizia popolare e a quella dell’edilizia in affitto sociale, per agevolare quelle fasce che sono abbastanza povere da avere diritto alla casa, ma nemmeno così ricche per acquistarle, fosse anche tramite una cooperativa.
A questo si affianca un altro intelligente intervento dello Stato, ovvero la costituzione da parte della Cassa Depositi e Prestiti di un Fondo destinato a intervenire a favore della costituzione di Fondi territoriali che si stanno realizzando in tutta Italia o di dimensione regionale o di dimensione locale, che hanno come scopo quello di fare investimenti e di mettere a reddito (a un tasso d’interesse del 3% più l’inflazione) i beni costruiti, cosicché il costo dell’affitto risponda a quei criteri di sostenibilità del famoso 30% del reddito di queste fasce sociali.
Posto quindi che sono in fase di avvio sia il processo finanziario che quello legislativo in Regioni come la Lombardia, non si capisce come mai non si riesca a dare una risposta rapida a un bisogno emergente così dilagante e soprattutto cosa frena la capacità di realizzazione. Le motivazioni sono da ricercare in una struttura amministrativa assai lenta e complessa e in un’oggettiva difficoltà nel reperire le aree su cui potere fare queste iniziative. Per realizzare le abitazioni e rispondere a quest’esigenza occorrono vari fattori: primo su tutti, le aree devono necessariamente avere un costo tendente allo zero e vincolate a una funzione sociale, quindi aree standard con un costo che non può essere speculativo.
A questo va aggiunto che il costo di progettazione e costruzione deve essere economico secondo i principi ecosostenibili, e su questo punto c’è un forte processo innovativo in atto sulle tecnologie e sulla progettazione, come abbiamo dimostrato durante Eire 2010 all’interno della Social Housing Exhibition. Infine c’è bisogno di un’agevolazione finanziaria con protagoniste le Fondazioni bancarie e una politica di agevolazione fiscale sulla quale invece lo Stato è completamente immobile. Basterebbe avere lo stesso regime di Iva di chi acquista la prima casa, invece oggi chi fa politiche sociali della casa non ha alcuna agevolazione fiscale.
Inoltre c’è un problema endemico nella Pubblica Amministrazione in generale: essa non si è ancora resa conto che occorre un piano d’aree funzionale a questo sviluppo e che va messo rapidamente a disposizione non solo nella pianificazione urbana del futuro, ma anche del presente nel più breve tempo possibile, come se fosse “uno sportello unico aperto” che accoglie e accetta le proposte che nascono dalla società e introduce iniziative dirette, provocando un mercato sociale profit o no-profit perché si realizzino.
Da parte delle Amministrazioni c’è una mancanza d’iniziativa che inevitabilmente farà esplodere l’esasperazione e il malessere dei cittadini. Si discute troppo, si pianifica tanto, ma si concretizza poco per via della lentezza della macchina burocratica del nostro sistema. Questo è il punto. Per esempio se a Milano oppure a Roma si riuscisse in breve tempo a mettere sul mercato anche “solo” 10.000 appartamenti, il mercato immobiliare privato sarebbe costretto ad abbassare le sue pretese e i suoi canoni, favorendo un nuovo equilibrio tra domanda e offerta, e quindi di prezzo. Dal mercato abitativo arriverebbe un forte segnale concreto di ripresa a tutta la comunità economica nazionale.
Il compito di chi governa è quello di intravedere quali sono le problematiche principali e creare processi che mettano in moto in primis la società civile per risolverle. Sulla questione della casa si parla troppo e si fa poco perché non si capisce qual è la vera entità della problematica. Nella maggior parte dei casi chi è in lista d’attesa per una casa, immigrati e non, hanno un lavoro: l’immigrato venuto in Italia tendenzialmente fa il muratore, l’imbianchino, l’idraulico, il pizzaiolo. Iniziamo attraverso un’offerta seria di social housing a far sì che queste persone, in grado di pagare un canone indicativo di 300/400 euro al mese, non partecipino più alle liste pubbliche, pensate per chi è povero davvero. Si tratta in particolare degli anziani con la pensione sociale: diamo loro invece un “buono casa” che possa rispondere al bisogno in modo più trasparente e rapido.
Che queste case siano poi messe a disposizione dalle Aler, dalle cooperative o dai privati poco importa, il punto è che si risponde a un bisogno e intanto non si va a pesare sulle casse pubbliche come invece si fa oggi. Se la politica della casa non arriva a questo orizzonte vuol dire che non ha capito qual è la strada da intraprendere, quali sono i rischi reali se non lo si fa in fretta e soprattutto qual è il suo vero compito nell’interesse del bene comune.