“Il ‘miracolo’ di Marchionne che l’Italia non vuole”, titolava ilsussidiario.net del 19 novembre presentando l’articolo, come sempre documentato, di Ugo Bertone sull’inizio dell’avventura americana della 500 e sulle altre iniziative, in Italia e all’estero, che vedono protagonista l’amministratore delegato del Lingotto.



Ora, tutto voglio mettere in dubbio salvo le eccezionali doti di manager e leader di Sergio Marchionne. Sono un fatto di cronaca, una realtà conclamata: quando è arrivato a Torino, nel 2004, l’azienda rischiava di fallire. Questo evento, che sarebbe stato nefasto per tutto il Paese, non si è verificato. Anzi, la Fiat si è dimostrata viva e vitale, è diventata protagonista di operazioni di grande respiro, prima fra tutte l’ingresso nell’americana Chrysler che la proietta in una dimensione internazionale mai conosciuta nella sua storia più che centenaria.



Ma Marchionne ha fatto anche altro. Ha affrontato con un coraggio inusuale dalle nostre parti il tema della produttività italiana e delle relazioni industriali. Lo ha fatto in maniera dura, decisa, dicendo chiaramente a tutti, dentro e fuori le aziende: “Non pretendiamo di essere competitivi con la Cina, l’India, e le altre economie emergenti. Ma con la Germania sì, altrimenti rischiamo di scomparire”. E da questa sua premessa sono discese, con lucida freddezza, decisioni anche dolorose che lo hanno portato a scontrarsi apertamente con la Cgil-Fiom, tuttora il sindacato più importante per un’azienda metalmeccanica.



Ma sono altri ancora i meriti che bisogna riconoscergli. In campo finanziario, la separazione in due del gruppo (da una parte l’auto, dall’altra tutto il resto) è senz’altro positiva, elimina un concetto di conglomerato abbandonato da tempo un po’ in tutto il mondo, perché i mercati chiedono di sapere con chiarezza qual è il business di una qualsiasi impresa.

Bene. Dopo questa lunga premessa, arriva un però: per valutare un editore si contano le copie di giornali, per un birraio le bottiglie e lattine di bionda, per un produttore di auto il metro è rappresentato dalle auto. E qui le cose vanno male. Le ultime statistiche indicano che in ottobre le immatricolazioni di vetture in Europa hanno subìto un calo del 16,1%. Peggiore di tutti i costruttori europei è stato proprio il gruppo Fiat che ha chiuso ottobre con un meno 32,7%. Un crollo che ha portato la sua quota di mercato in Europa al 6,9%, contro l’8,7% di un anno prima. Mai il Lingotto era sceso così in basso.

Marchionne ha commentato con tranquillità che se lo aspettava: dopo due anni di droga (gli incentivi) era normale che ci fosse un andamento negativo. Ora, va bene che il leader di un’azienda deve sempre ostentare ottimismo e sottolineare le positività, ma in quel dato di ottobre non c’è nulla di normale. La Fiat ha perso più del doppio della media del mercato. Se si tiene conto poi che il grosso delle sue vendite è concentrato in Italia, non si può che tirare una conclusione: la Fiat è ormai un produttore marginale sui mercati europei. A questo è arrivata perché da anni non sforna modelli vincenti (a parte la 500, che però rappresenta una nicchia).

 

Per raggiungere rapidamente risultati finanziari, Marchionne ha sacrificato sugli investimenti, sullo sviluppo. E il risultato è quel 6,9%. Sarà molto difficile recuperare le quote di mercato lasciate ai concorrenti tedeschi, francesi, extraeuropei. Sarà anche molto costoso: il leader della Fiat parla di sinergia con la Chrysler. È senz’altro un’indicazione giusta. Ma, sinergia significa sì usare le rispettive reti commerciali, ma anche sviluppare piattaforme comuni per nuovi modelli. E per farlo ci vogliono grandi investimenti.

 

Marchionne, intanto, ha annunciato che venderà qualche pezzo dell’argenteria Fiat: se ne andrà la componentistica della Magneti Marelli, una parte del pacchetto Ferrari e, solo di fronte a un’offerta strabiliante, anche l’Alfa Romeo. Molte volte la Fiat ha seguito questa strada, privandosi di aziende non del core business come Telettra (e pazienza), ma anche altre strettamente legate al suo mestiere di costruttore di auto. Basti pensare a quando ha ceduto la spagnola Seat alla Volkswagen o il brevetto common rail (gioiello tecnologico) alla tedesca Bosch.

 

Ora ci risiamo. E la Borsa applaude, premiando il titolo: come ricorda correttamente Bertone, la Fiat in sei mesi ha guadagnato il 54,9%. Perfetto. Se la finanza punta su una casa di automobili anche se non riesce a vendere automobili, vuol dire che tutto funziona, che le prospettive sono rosee. Sarà. Anche se sommessamente mi permetto di avanzare qualche dubbio: che cosa ci deve ancora succedere, dopo il 2008, per dire che quanto è bene per la finanza, non sempre è bene in sé?

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