Mentre l’Ue bolla come irresponsabile l’ipotesi di voto anticipato in Irlanda – «Abbiamo bisogno di un governo con cui portare avanti i negoziati», si è fatto sfuggire un funzionario con il Daily Telegraph – e le banche dell’ex Tigre celtica crollano e vengono ufficialmente messe in vendita per compratori stranieri dal governatore della Banca centrale, a Dublino va in scena una vera e propria guerra interna al governo, con tanto di mozione di sfiducia per il premier Brian Cowen preparata dai suoi stessi compagni di partito, terrorizzati di perdere lo scranno in caso di voto a gennaio.
Ma in testa alle priorità del primo ministro, oggi, non ci sono le beghe interne, quanto due priorità: approvare il budget di emergenza necessario a sbloccare i fondi Ue e, contemporaneamente, salvaguardare la corporate tax del 12,5%, vera dinamo degli investimenti esteri, dalla mannaia di Ue e Fmi, al momento formalmente disinteressati all’argomento, ma destinati a porre la questione non appena la Germania alzerà la voce dopo aver dovuto mettere ancora mano al portafogli.
E quando il Financial Times, a firma Gideon Rachman, comincia a chiedersi se a Berlino non convenga “uccidere l’euro” significa che la situazione è davvero seria: la Germania per ora continua il ruolo di guida, spingendo per rendere strutturale il fondo di salvataggio e portando avanti la logica di condivisione dei costi attraverso il taglio dei rendimenti obbligazionari sovrani, ma se il contagio toccherà Madrid, allora tutte le opzioni sono sul tavolo per evitare ricadute politiche interne dalle conseguenze imprevedibili, vista l’insofferenza dei contribuenti teutonici verso i partner cicale.
Dall’euro a due velocità a qualcosa di più drastico, ma al momento è questo dumping fiscale a essere nel mirino dei legislatori tedeschi: se infatti Dublino, attraverso una fiscalità agevolata, ha goduto di un decennio di crescita record, oggi Berlino chiede conto e ricorda come certe politiche non possano essere protratte in un regime di austerity imposta da Ue e Fmi come garanzia per lo stanziamento di fondi. Anche perché, al netto dell’export hi-tech e farmaceutico, Dublino già nel 2012 potrebbe conoscere un surplus del 3,2%, quindi garantirsi il salvataggio del sistema bancario con fondi comunitari e poi beneficiare della politica dei distretti per ripartire di slancio: un po’ troppo comodo per le formiche tedesche, spaventate dall’andamento dell’euro dopo la politica di quantitative easing della Fed e interessatissime a mantenere forte la voce delle esportazioni.
«Per ora il profilo di Berlino resterà basso per non alimentare ulteriori tensioni sui mercati, già agitati, ma è chiaro che quando i colloqui entreranno nel vivo, quell’aliquota dovrà salire almeno al 17,5%: altrimenti i veti si alzeranno come muri insormontabili», dichiara Simon Ward della Henderson Global Investors di Londra.
Ma mentre la politica, sia a livello nazionale che europeo, è ancora alla fase delle schermaglie, i mercati guardano avanti. Molto avanti. «Viviamo ore gravi ma bisogna calmare le acque e passare all’azione», così, parlando ai parlamentari europei, il presidente Ue, Herman Van Rompuy, è intervenuto sulla crisi attraversata dalla zona euro, sulla scia dell’“effetto Irlanda”. Poi, con piglio comico degno di un cabarettista navigato, si è detto convinto che «la crisi sarà superata» e ha escluso che vi sia un rischio contagio per il Portogallo.
Detto fatto, Standard&Poor’s ha tagliato il rating sovrano irlandese da AA- ad A. Di più, stando a un analista di Citigroup citato dall’agenzia Bloomberg, la dimensione del downgrade «è stata probabilmente più modesta di quanto alcuni avevano previsto». Come dire, i conti e soprattutto il sistema bancario sono conciati ancora peggio di come si creda. Ma si sa, la politica è lenta: ci sono voluti mesi prima che Angela Merkel parlasse chiaramente di euro a rischio e ora, forse, è troppo tardi. Nelle sale trading della City, invece, si segue il ritmo frenetico dei mercati. I quali non solo hanno già digerito il fallimento del salvataggio irlandese, ma danno già per cento quello del Portogallo al massimo entro febbraio: oramai si guarda, con occhio tutt’altro che benevolo, soltanto al destino della Spagna.
Gli indicatori, d’altronde, parlano chiaro. Per Simon Derrick della Bank of New York Mellon, «c’è ormai la chiara evidenza che la Grecia non è più un caso isolato e le stesse autorità europee sono spaventate dal rischio contagio. Basta vedere come agiscono per capire che là fuori i rischi sono grossi». Il debito pubblico portoghese è formalmente all’80% del Pil, ma combinato con un deficit di budget al 9,3% e un debito privato del 240% del Pil la situazione di fa drammatica, visto che inoltre gli investimenti esteri pesano per il 40% del finanziamento delle banche e i mercati hanno da tempo chiuso loro le porte in faccia.
Ma a smentire l’ottimismo delirante di Van Rompuy ci pensavano ieri le fredde cifre del mercato obbligazionario: i rendimenti dei bond decennali portoghesi sono schizzati al 6,9%, replicando perfettamente il modello di andamento prima di quelli greci e poi di quelli irlandesi. Ma a far paura, davvero, è lo spread tra i decennali spagnoli rispetto al bund, salito di 233 punti base e spingendo i rendimenti al 4,87%: superare quota 5% è la soglia psicologica fissata dai mercati per dichiarare anche la Spagna bisognosa di salvataggio. Non è un caso che il governatore della Banca Centrale spagnola, Miguel Angel Ordonez, abbia stimolato il governo ad accelerare le riforme fiscali per calmare i mercati.
Se il salvataggio combinato di Grecia-Irlanda-Portogallo porterebbe il conto da pagare per la facility europea a oltre 300 miliardi di euro, quello anche della Spagna farebbe saltare il banco (il fondo ha stanziato in tutto 440 miliardi di euro) e porterebbe con sé la necessità di nuovo finanziamento da parte degli stati membri (andate a dirlo a tedeschi e olandesi) e alla perdita del rating AAA per il fondo stesso. In Spagna, d’altronde, le banche hanno assets pari a tre volte l’economia nazionale, nonostante solo la metà di questi siano in mano alle cajas, le pericolanti casse di risparmio. E come per il deficit irlandese, salito dal 12% al 32% proprio per i salvataggi bancari, a fare paura è l’ipotesi di una crisi del settore che porterebbe la facility europea per i bail-out al collasso.
Per Antonio Garcia Pascual, capo economista per l’area sud dell’euro a Barclays Capital, «la prossima questione riguarda proprio l’impatto spagnolo, a cui seguirà il contagio all’Italia, alla Francia e infine all’intera Europa. La Spagna, infatti, è troppo grande per essere salvata, il piano per toglierla dai guai renderebbe le casse della facility Ue esangui a fronte del rischio conclamato di un contagio diretto all’Italia. A quel punto, sarebbe l’esistenza stessa dell’euro a essere messa alla prova e penso che i tedeschi penseranno molto bene al da farsi e a cosa sacrificare».
Già, la Germania, il vero e unico policy maker europeo. Per Julius DeAnne, ex membro della Bank of England ora a capo di Chatham House, «è molto probabile che vedremo uno spostamento dell’assalto di liquidità dall’Irlanda al Portogallo, ma la vera domanda da porsi e se e quando questo spostamento investirà la Spagna, le cui dimensioni non sono quelle di Irlanda, Grecia o Portogallo».
Per Ralph Solveen di Commerzbank il rischio che Lisbona segua il destino di Dublino è «sostanziale, poiché hanno problemi a raggiungere l’obiettivo di deficit quest’anno, hanno grossi problemi strutturali e, oltretutto, sono già nel mirino dei mercati». Per Stuart Thomson, gestore portafogli alla Ignis Asset Management di Glasgow, il salvataggio portoghese «è ormai inevitabile» e, soprattutto, appaiono risibili le rassicurazioni fatte da Olli Rehn, commissario europeo agli Affari economici e monetari, secondo cui il Portogallo e l’Irlanda sono due casi differenti: «Quella di Rehn è una pura commedia, ha detto la stessa cosa qualche settimana fa riferendosi a Grecia e Irlanda». Per gli analisti di Royal Bank of Canada, il Portogallo chiederà ufficialmente aiuto entro e non oltre il primo trimestre del prossimo anno.
Signori siamo allo showdown finale, ma la cosa non dovrebbe cogliervi di sorpresa: sono mesi e mesi che lo diciamo prendendoci dei catastrofisti da detrattori molto presenti e pungenti. gli stessi che, però, da qualche settimana sono misteriosamente scomparsi. Gioire sulle rovine non è conveniente, anzi è stupido visto che a rimetterci saremo tutti quanti: essere fieri di non aver sparso pessimismo ma raccontato la realtà, però, è giustificato. Almeno lo spero, ditemi voi.
P.S. Che i problemi legati al debito sovrano dei cosiddetti Pigs siano reali, è un dato di fatto. Mi permetto però di far notare che ogni volta che l’euro si avvicina a 1,40 – valore estremamente pericoloso per le esportazioni tedesche – iniziano i rumors sull’instabilità di qualche paese periferico o sulla necessità del taglio dei rendimenti obbligazionari. I guai ci sono, gli Stati cicala e quelli Pinocchio anche ma non vorrei che la Germania, per salvarsi, stia comportandosi esattamente come le tanto vituperate agenzie di rating. Rifletteteci…