Il killer dei mercati va avanti con il suo lavoro. Dopo aver freddato la Grecia, ha continuato il suo lavoro in Irlanda. Adesso, come Uma Thurman in “Kill Bill” di Quentin Tarantino, la temuta speculazione volta pagina. Nel mirino, più prima che poi, finirà il Portogallo. Poi sarà la volta della Spagna. E a quel punto sarà maturo l’attacco all’Italia che nel 2011, al pari del 2010, dovrà affacciarsi ai mercati per collocare 200 miliardi di nuovi titoli di Stato.



È la stessa cifra di quest’anno, potremmo obiettare in uno slancio di ottimismo. Anzi, l’anno prossimo la concorrenza sarà un po’ meno feroce visto che, sulla carta, le emissioni della zona euro si limiteranno a 850 miliardi, contro i 910 di quest’anno. Il Tesoro è riuscito a fare miracoli, rinunciando addirittura alle aste di metà mese per dicembre, a dimostrazione che la navigazione nel mare dei Bot e dei Btp si è rivelata più tranquilla del previsto.



Non solo. Grazie alla legge di stabilità, l’Italia si affaccia al nuovo anno finanziario con un disavanzo primario, al netto degli interessi, dello 0,8%: dieci volte di meno degli Stati Uniti del “quantitative easing” e del Regno Unito, di cui spesso si loda la virata austera di David Cameron dimenticando la tenuta dell’Italia, ex cicala d’Europa. Almeno sul fronte pubblico, perché, come rileva l’indagine sulla ricchezza di Ubs, le famiglie di casa nostra restano in cima alla lista per la proprietà privata: 8mila miliardi di euro, quattro volte il debito della Repubblica.

Ma non mancano le ragioni per essere pessimisti. Rispetto a un anno fa, la situazione politica è senz’altro più complicata sul fronte interno. E le prospettive della ripresa, ahimè, non sono migliori. Oggi come ieri, in assenza di un rilancio della domanda interna, già si farà fatica a rispettare la previsione della crescita di un punto percentuale. Difficile sperare, con una cornice del genere, in un miglioramento della finanza pubblica. Per giunta, a rendere più complicata la gestione del debito pubblico, si profila la richiesta tedesca di far condividere ai portatori del debito pubblico una parte del rischio default a partire dal 2013. Una condizione che ha già portato a un aumento degli spread rispetto al “bund” tedesco.



Insomma, non è poi così peregrina l’ipotesi che già nel 2011, se non nel 2012, l’Italia debba sopportare un attacco speculativo di vasta portata che metta a rischio la sua appartenenza alla eurozona. Non a caso, in questi mesi, anche i non specialisti si stanno accorgendo, con una certa meraviglia, che a suo tempo non è stata prevista alcuna via di uscita dall’euro. Manca una way out codificata per eventuali defezioni dall’euro. Una lacuna inquietante e singolare: negli anni del post comunismo si è discusso con serenità dell’ipotesi della secessione all’interno di un Paese, come è avvenuto per la Repubblica Cecoslovacca. Ma non si è previsto, forse per scaramanzia, un eventuale processo di secessione dall’euro che non potrebbe che essere traumatico. Meglio farlo oggi, prima che sia troppo tardi. Ma in un quadro europeo.

A differenza di quanto è accaduto per la Grecia o l’Irlanda, infatti, un attacco su larga scala alla finanza italiana equivarrebbe a mettere in discussione l’esistenza stessa dell’euro, almeno nella sua attuale formulazione. Vuoi per le dimensioni dell’economia italiana, vuoi per il peso che le emissioni italiane di debito pubblico hanno per l’area euro.

 

Di qui, per la proprietà transitiva, la possibile uscita italiana dall’area euro vuol dire metter sul tappeto la questione della tenuta dell’euro come grande valuta di riferimento internazionale. Ovvero, questione fondamentale, la volontà, anzi la convenienza tedesca, di sostenere o meno la moneta unica piuttosto che cedere alla tentazione di tornare al vecchio marco, abbandonato a malincuore per avere il via libera alla riunificazione tra le due Germanie.

 

Finora Angela Merkel ha saputo conciliare in maniera mirabile le due anime, spesso contraddittorie, della Germania: l’economia tedesca ha tratto indubbi benefici dalla creazione di un’area economica di 600 milioni di consumatori, ma ha saputo evitare il “contagio” della finanza allegra mediterranea. È una situazione instabile, in cui i “salvataggi” vanno fatti digerire a un’opinione pubblica ostile a far sacrifici per spagnoli, greci o tantomeno per gli italiani. In cui, insomma, bisogna evitare che i cugini dell’area euro si sentano “too big to fail”. Ma è una situazione che le banche tedesche (e in minor misura quelle francesi) non possono far collassare. Di qui la difficile ricerca di una quadratura del cerchio politica.

 

L’euro, in sintesi, durerà finché converrà alla Germania farlo durare. Magari con il sostegno interessato della Cina, cui fa gioco un terzo incomodo nel braccio di ferro contro gli Usa. Ma a Berlino preme dare il via a un ciclo virtuoso della finanza dell’eurozona. Non è realistico pensare di assorbire lo stock già accumulato, ma è necessario, facendo pagare di più il costo del debito (coinvolgendo i sottoscrittori nel rischio default), impedire che se ne crei di nuovo com’è avvenuto negli anni delle vacche grasse, quando la nascita dell’euro non ha favorito, come sperava Carlo Azeglio Ciampi, tra gli altri, un risanamento della finanza pubblica, ma ha spinto i governi, sia di destra che di sinistra, a spendere i presunti tesoretti.

 

Oggi, sotto la minaccia di “Kill Bill” si vuole, cambiare registro . Sarà possibile? L’impressione è che la Germania intenda chiedere garanzie reali in cambio dei suoi sforzi. Non a caso, si moltiplicano le voci di “affari” tra le due economie: il possibile acquisto dell’Alfa Romeo (Volkswagen), piuttosto che di Iveco (Daimler), o un riequilibrio in Unicredit-Hvb sono i primi esempi.

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