La prossima primavera la “nuova” Fiat, frutto dello spin off tra Auto e Industrial (Cnh e Iveco), farà il suo esordio al salone di Ginevra con alcune novità: un Suv derivato dal Dodge Journey, la 300 C e il Grand Voyager. Tre modelli, insomma, in arrivo da Detroit, di cui almeno due con il brand Lancia. La gamma delle nuove proposte sarà completata dalla nuova Lancia Ypsilon, sfornata dall’impianto di Tichy, in Polonia.



In quel momento, se verranno confermate le previsioni di Sergio Marchionne, il mercato italiano delle quattro ruote non sarà ancora uscito dalla crisi di vendite che lo affligge ormai dalla primavera scorsa. A partire dal gruppo Fiat, precipitato ai minimi da 15 anni. Calo prevedibile e scontato, minimizza Marchionne: era inevitabile che la fine degli incentivi colpisse i segmenti metano e gpl, cioè i modelli più premiati dagli aiuti dei vari Paesi europei.



Non tutti i mali vengono per nuocere, del resto. Di fronte alla prospettiva del calo delle vendite Marchionne ha frenato l’avvio dei nuovi modelli, con i relativi investimenti, con il risultato di ridurre l’indebitamento dai previsti cinque miliardi a meno di quattro. A differenza che in passato, perciò, l’azienda non ha difeso le quote di mercato a scapito dei profitti. “Abbiamo resistito a questa tentazione – ha detto il ceo di Fiat agli analisti – più diffusa in Europa che altrove”. Ma questa “tentazione” si spiega con la volontà sia di far marciare gli stabilimenti che di difendere il parco clienti nel mercato. Cosa che Fiat, stavolta, ha evitato di fare.



Marchionne, del resto, si può consolare oltre Oceano nella veste di ceo di Chrysler: lunedì 8 novembre, a Detroit, potrà annunciare risultati in crescita nel terzo trimestre, come lascia intuire il boom (+37%) delle vendite a ottobre. Forse sarà anche l’occasione per anticipare il progetto di quotazione a Wall Street della casa automobilistica, sull’onda del prossimo collocamento di Gm. Intanto, negli States arriveranno le prime “500” prodotte a Tijuana, Mexico, in attesa del modello “elettrico” sviluppato su tecnologia Usa. E del primo prototipo multiair da produrre negli States, condizione contrattuale necessaria per consentire a Fiat di salire fino al 35% della stessa Chrysler. In vista della fusione Torino-Detroit.

Queste poche note servono a offrire la cornice più adeguata per spiegare lo stato dell’arte di Fabbrica Italia, il progetto di investimenti per 20 miliardi di euro che dovrebbe portare alla produzione di 1,4 milioni di veicoli Fiat (di cui mezzo milione da esportare) entro il 2014 contro le attuali 600 mila unità: il Lingotto ha fretta di chiudere la trattativa. Ma non perché vuol lucrare aiuti di Stato che comunque l’Italia non può garantire o perché costretta dallo stato di necessità. Semmai l’azienda è un treno in corsa, che dispone di un piano B per sviluppare i modelli fuori Italia. E ha ormai fatto precise promesse ai mercati finanziari, che hanno reagito con forti acquisti sul titolo, che non può deludere.

 

Di lì il pressing mediatico del Lingotto: prima Marchionne alla trasmissione di Fabio Fazio; poi l’attivismo di John Philip Elkann presso i palazzi del potere. Prima l’annuncio che le produzioni Fiat in Italia sono tutte in perdita (ma la Ferrari?), poi l’assicurazione che il gruppo intende restare comunque in Italia. Ma con quali forze e con quale impegno dipenderà dalla risposta del Paese: a partire dai sindacati, certo. Ma anche dalla magistratura e dalla politica. Ci sono voluti otto mesi (compreso l’interim di Silvio Berlusconi) perché il responsabile del dicastero dello Sviluppo Economico prendesse un impegno diretto a favore di Fabbrica Italia, impegnandosi in via diretta con i sindacati.

 

Quasi che un piano da 20 miliardi di euro non meritasse un interesse particolare. Ora pare che il meccanismo si sia messo in moto. Finalmente. Insomma, è l’ora di metter le carte in tavola. E speriamo che quello di Marchionne non sia un bluff. 

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