In un’altra vita, se gli toccasse, Sergio Marchionne potrebbe fare il Silvio Berlusconi, e forse viceversa. Già in questa – si è visto su ilsussidiario.net – i due sono sorprendentemente accomunati dall’abitudine di invocare il proprio spirito di sacrificio per legittimare qualche soddisfazione compensativa: il megastipendio per Marchionne, le serate “allegre” per Berlusconi. Ma il manager abbruzzo-canadese dal maglione nero, capo carismatico del gruppo Fiat, ha in comune con il premier pro-tempore un’altra grande caratteristica, quella di promettere e spesso non mantenere, spostando di volta in volta più in là l’asticella dei passi da fare, il futuro da costruire, le soddisfazioni da conseguire.



Bravo è bravo, intendiamoci, questo non si discute. Ma dopo il primo biennio passato sott’acqua, a lavorare tacendo, ha acquisito un gusto dell’esternazione che non gli si sarebbe immaginato. E via esternando ha promesso dapprima i 6 milioni di auto nel 2012 da parte della sola Fiat, che oggi con Chrysler forse li avvicinerà, poi il potenziamento dell’insediamento piemontese, salvo lasciarsi sfuggire che, se potesse, se ne andrebbe dall’Italia. E gli esempi potrebbero continuare.



Nel frattempo, nonostante l’ottimo andamento complessivo della Fiat, dovuto soprattutto alle performance dell’auto in Brasile e ai settori non-auto, in Italia la penuria di nuovi modelli ha fatto drasticamente diminuire la quota di mercato. Perché se è vero che tutti perdono vendite in cifre assolute, è pur vero che i concorrenti intercettano fette crescenti della magra torta degli ordinativi italiani.

Qual è allora, se ce n’è uno, l’asso nella manica di Marchionne? Semplice, onnicomprensivo e fortunato: l’America! È lì, dalla palingenesi della Chrysler, che per ora controlla con il 25% ma di cui potrà acquisire gratis il controllo formale soltanto ottemperando (ahia) alle promesse fatte all’amministrazione americana, che Marchionne pensa di poter trarre la linfa per il rilancio complessivo del gruppo nell’auto.



Perché? Perché la Chrysler potrebbe fornire alla Fiat le piattaforme produttive per ampliare, soprattutto verso l’alto di gamma, l’offerta di vetture a marchio italiano, soprattutto Alfa Romeo e Lancia, che ormai da anni langue su livelli imbarazzanti. Importando dagli States le piattaforme di questi modelli (oltre che i modelli veri e propri, che però hanno sempre avuto pochissimo mercato) Marchionne pensa di poter imporre sul mercato italiano qualcuna di quelle ammiraglie che la Fiat non ha praticamente mai saputo produrre, o quantomeno non più dagli Anni Sessanta in poi.

Contemporaneamente, grazie alla rete di vendita della Chrysler negli Usa pensa di poter diffondere finalmente su quel mercato le mitiche utilitarie italiane, prima fra tutte la 500 e poi anche la Panda e forse la Punto. Insomma, l’alchimia del Grande Abruzzese è semplice: da una parte prende i modelli Usa e li importa in Italia, a volte tali e quali a volte rivestendoli di un manto tricolore, per offrire al nostro pubblico le ammiraglie che la Fiat non sa fare e comunque non ha nei cassetti; dall’altra vende le nostre utilitarie anche negli States.

 

Riuscirà nel suo piano? La scommessa è di quelle al buio. È chiaro che la 500 in America sta spopolando, non foss’altro per quelle milionate di italoamericani di seconda e terza generazione che ancora ne sentono parlare come della Nonna Cesira. È anche probabile che perfino le vecchie Alfa, se di nuovo importate, potranno andar bene; più arduo sarà invece imporre Panda e Punto. Ma che le grosse berlinone Chrysler, le meno brillanti dell’industria americana nella loro gamma, possano battere le Bmw e le Audi agli occhi dei “cumenda” milanesi che vogliono cambiarsi la macchina della ditta, o che la Jeep Grand Cherokee possa dire qualcosa di competitivo contro la Bmw X 5 beh, auguriamocelo, ma non è così automatico.

 

Per ora, però – bisogna ammetterlo – la “cura Marchionne” sta funzionando anche in Chrysler. Proprio ieri il gruppo americano ha approvato i conti del terzo trimestre, con un aumento dei ricavi del 5,2% a 11 miliardi di dollari e il dimezzamento delle perdite a quota 84 milioni. Di questo passo la promessa fatta da Marchionne, 40 miliardi di ricavi nel 2011, è stata innalzata a 42, mentre anche quelle sui risultati economici sono state riviste al rialzo. E non basta. Malgrado la batosta incassata alle elezioni di Mid-Term, il presidente americano Barack Obama rilancia su Marchionne e gli concede nuovi aiuti: in particolare, entro un mesetto, un finanziamento dal Dipartimento dell’Energia statunitense del valore di 3 miliardi di dollari per lo sviluppo di vetture a basso consumo di carburante.

 

«Il successo finanziario di Chrysler – ha sottolineato Marchionne parlando con gli analisti finanziari – dipende dai veicoli che costruiamo e vendiamo. In soli 16 mesi la società sta presentando 16 prodotti intermente nuovi, a partire dall’acclamata Jeep Grand Cherokee 2011 e inclusa la Fiat 500, che segna il ritorno del marchio Fiat negli Stati Uniti e in Canada. Siamo impegnati ad assicurare che ogni nuovo veicolo che la società lancerà abbia la stessa alta qualità della Jeep Grand Cherokee. I risultati 2010 sono solo l’inizio per far divenire il Gruppo Chrysler una casa automobilistica vibrante e competitiva».

Musica per le orecchie degli appassionati d’auto: se Marchionne riconosce che il successo di Chrysler deriva dai nuovi modelli, chissà cosa farà adesso in Fiat! Se lo deve essere chiesto anche Susanna Camusso, neosegretario generale della Cgil, che vorrebbe – ha detto – «chiedere a Marchionne se il tema critico non siano appunto i modelli della Fiat, che in Europa, tolta la 500, vende poco altro».

 

Un bel bigliettino da visita polemico, come un sindacalista d’altri tempi: né il falco Landini, né il mellifluo Bonanni, ma qualcuno con cui doversi confrontare sul serio. Forse perfino a Marchionne una dialettica severa farebbe bene.