La settimana del G20, che si terrà nella Corea del Sud, si apre con un atto dell’America che è stato percepito come di “guerra economica” da parte delle altre maggiori potenze del pianeta. Come annunciato da tempo, la Fed ha confermato il 2 novembre scorso la decisione di comprare titoli di debito statale americano per un valore di 600 miliardi di dollari. Semplificando, significa stampare dollari.
Come motivazione formale, il presidente della Fed, Bernanke, ha dichiarato che nel mercato interno statunitense a ripresa troppo lenta per riassorbire l’alta disoccupazione prevale ancora il rischio di deflazione e che quindi deve tentare di indurre inflazione. Va ricordato che la Fed, diversamente dalla Bce, ha una doppia missione statutaria: non solo difesa del valore della moneta, ma anche obbligo di stimolare la crescita quando questa è poca.
Tuttavia l’azione della Fed non appare giustificata dalla situazione del mercato interno americano dove non occorre immettere più liquidità, ma aumentare la fiducia degli attori affinché questa venga impiegata. E quindi un atto di guerra economica contro altri?
La mossa comporta una svalutazione del dollaro e il rischio di una bolla di inflazione esportata dall’America al resto del mondo. In particolare, è ormai quasi un automatismo che alla discesa del valore di cambio del dollaro corrisponda un rialzo del prezzo (in dollari) delle materie prime non proporzionale. La non proporzionalità al rialzo è dovuta al moltiplicatore speculativo. Il fenomeno lo abbiamo già visto nel 2005-08, quando il dollaro basso ha innescato un rialzo abnorme dei prezzi energetici, aumentando l’inflazione per questa via. Per tale motivo la reazione più violenta è stata quella della Germania.
Il dollaro basso rende meno competitive le esportazioni in euro di cui vive la Germania (e l’Italia, va aggiunto). Inoltre la difesa contro l’inflazione importata alzando l’euro – in modo che i rialzi dei prezzi in dollari vengano neutralizzati – ha dimostrato di non funzionare pienamente proprio perché la non proporzionalità del meccanismo rialzista detto sopra genera bolle incontenibili.
In sintesi, la Germania, potenza singola dell’eurozona e membro di fatto del G3, con Cina e America, che governa l’economia mondiale vede nell’azione statunitense lo spettro di una stagnazione/recessione combinata con il rialzo dell’inflazione (devastante, inoltre, per l’aumento dei costi di rifinanziamento dei debiti pubblici delle euronazioni). E ha ragione. Ma perché l’America si comporta così?
Washington si sente tradita dagli europei e dalla Cina perché non l’hanno aiutata nella crisi economica. Ai primi e alla seconda chiede di fare più crescita interna e importare più merci americane in modo da riequilibrare il deficit commerciale a danno (ed è vero) dell’America e dei suoi lavoratori. Alla Cina, in particolare, chiede anche di rivalutare velocemente lo yuan che è tenuto sottovalutato da Pechino di almeno il 30% (ma qualcuno stima perfino il 40%) per rendere più competitive le esportazioni cinesi.
Ma Berlino, come nazione guida dell’Eurozona in quanto potenza prevalente nella diarchia con la Francia, e Pechino hanno rifiutato adducendo priorità nazionali che rendono impossibile fare quello che chiede l’America. Per questo l’America si è stufata e ha deciso di far crollare il dollaro così di fatto minacciando di indurre recessione e inflazione devastanti in Eurozona e Cina. Il segnale è: l’America non vuole più impoverirsi per fare ricchi gli altri ed è pronta, per disperazione, alla guerra economica per dimostrarlo.