Questa settimana, come le prossime, saranno importanti per l’euro. Oggi, infatti, in Italia il voto di sfiducia a Berlusconi potrebbe creare una forte instabilità politica. Inoltre, giovedì 16 novembre si terrà un importante vertice europeo dove certamente si dibatterà anche delle soluzioni da mettere in campo per rendere il futuro della moneta unica meno pericolante. Ne abbiamo discusso con Domenico Delli Gatti, docente di Economia Politica ed Economia Monetaria all’Università Cattolica di Milano.
La settimana passata è stata abbastanza tranquilla per l’euro. Questa, invece, con il voto di sfiducia al governo Berlusconi, potrebbe essere di segno opposto?
Non ci sono e non ci saranno settimane tranquille per l’euro nei prossimi mesi, indipendentemente dalle vicissitudini del governo Berlusconi. Gli operatori dei mercati finanziari apprezzano la stabilità politica, specialmente in presenza di rischio sovrano, ma il presente governo non l’ha garantita finora e sicuramente non la garantirà nel futuro, comunque vada il voto di oggi. Anche se Berlusconi riuscisse a ottenere la fiducia, infatti, la maggioranza sarebbe risicata e precaria. Il rinvio alle urne, una campagna elettorale feroce e il rischio di una vacanza di potere prolungata è anch’essa una prospettiva poco allettante per gli operatori dei mercati finanziari. A mio avviso – ma si tratta solo di un’opinione personale – questi ultimi percepirebbero come un netto miglioramento, rispetto alla situazione politica attuale, un governo “tecnico”, possibilmente di “grande coalizione”, specificamente dedicato alla stabilizzazione macroeconomica e al riequilibrio della finanza pubblica.
Quali sono i rischi reali che corre il nostro paese?
La lista dei possibili obiettivi della speculazione – o, se vogliamo, delle vittime sovrane del panico degli investitori – è chiara. Nell’ordine: Grecia, Irlanda, Portogallo (ci siamo già), Spagna e, dulcis in fundo, Italia. Che il nostro paese non sia al riparo dalla linea di tiro è risultato chiaro, paradossalmente, appena dopo l’approvazione del pacchetto di salvataggio dell’Irlanda, quando si è verificato un improvviso allargamento dello spread (ossia del differenziale di tasso di interesse) tra titoli di Stato italiani e tedeschi. Per il momento il rischio di una “deriva” di tipo greco è modesto: lo spread dei titoli greci è di 9 punti percentuali e il governo di quel paese non riesce di fatto a finanziarsi sul mercato, mentre lo spread dei titoli italiani è di meno di 2 punti percentuali e il mercato dei titoli di Stato italiani è liquido e spesso. Tuttavia, finché gli operatori dei mercati finanziari non si convinceranno che il problema del rischio sovrano in Europa si sta avviando a soluzione, nessuno tra i paesi considerati si troverà al riparo. Gli sforzi compiuti finora, prima con il pacchetto di salvataggio della Grecia e adesso con quello dell’Irlanda, e la progressiva messa a punto di un meccanismo di salvataggio strutturato, sebbene apprezzabili, non si sono rivelati sufficienti. Per questo motivo i mercati sono così volatili.
L’Italia potrebbe essere costretta a una manovra finanziaria straordinaria?
Questa eventualità si materializzerà solo se assisteremo a una deriva di tipo greco della percezione del rischio sovrano sul debito italiano. Non è da escludere a priori, ma mi sembra ancora piuttosto remota.
Il 16 dicembre ci sarà un importante vertice europeo, oltre all’Ecofin. Si parlerà anche di riforma di patto di stabilità. Cosa conviene augurarsi che succeda?
La riforma del Patto di Stabilità è da lungo tempo all’ordine del giorno e anche da questo punto di vista si sono fatti passi avanti, con un’accelerazione dopo l’esplosione della crisi greca. L’idea che si è fatta strada a livello europeo – e sulla quale c’è sufficiente consenso – consiste nel rendere preventivo l’assenso delle autorità europee sulle manovre di politica fiscale nazionali. Finora, infatti, la commissione europea giudicava le manovre nazionali e sanzionava (eventualmente) gli scostamenti dei valori di bilancio (ad esempio, il rapporto deficit/Pil) dai valori di riferimento solo a cose fatte, dopo che le manovre nazionali erano state approvate e realizzate, il che rendeva spesso inefficace il sistema di controllo, come la crisi greca ha drammaticamente dimostrato. Con il nuovo patto, la commissione potrebbe “mettere il naso” nei conti nazionali e nelle proposte di politica fiscale nazionali prima della loro attuazione, rendendo quindi molto più efficace il sistema di controllo.
Ritiene che questa riforma sarà adeguata a evitare in futuro una crisi come quella della Grecia o dell’Irlanda?
La riforma del Patto è necessaria, ma non sufficiente. Si tratta solo di un passo nella direzione di una vera e propria unione fiscale che dovrebbe fare da complemento all’unione monetaria. Un’unione fiscale in senso stretto comporta una politica fiscale comune, ossia una cessione di sovranità fiscale dai paesi membri a un’autorità fiscale sovranazionale (ad esempio, la Commissione europea per conto dell’Unione monetaria europea). Un Patto di Stabilità rafforzato è solo una componente dell’unione fiscale e da solo rischia addirittura di essere controproducente. Se un paese viene colpito da uno shock – ad esempio il Portogallo – ed entra in recessione, attualmente ha la possibilità di utilizzare la leva fiscale (nazionale) per attenuare le conseguenze della recessione (ovviamente entro i limiti del Patto di Stabilità). Se, in base a un’interpretazione restrittiva del Patto di stabilità rafforzato, questa operazione gli viene impedita preventivamente dalle autorità europee, il paese subirà per intero le conseguenze della recessione.
Cosa cambierebbe invece con la politica fiscale comune?
Essa dovrebbe tener conto delle differenze di situazione macroeconomica nazionali (una possibilità che è preclusa per definizione alla politica monetaria comune) mediante uno specifico mandato redistributivo attribuito all’autorità di bilancio europea. In altri termini, in un’unione fiscale compiuta, questa autorità dovrebbe avere le risorse e i poteri per redistribuire risorse del bilancio pubblico europeo dai contribuenti dei paesi non colpiti dallo shock – ad esempio, i tedeschi o gli italiani – ai colpiti dalla recessione, diciamo i disoccupati portoghesi. Coi tempi che corrono, la fattibilità di un progetto di questo genere è modesta, ma a mio avviso occorre mettersi su questa strada.
Cosa pensa della proposta Tremonti-Juncker sugli Eurobond?
L’idea di emettere Eurobond (o e-bond, come si comincia a dire sulla scia della proposta Tremonti-Juncker) non è nuova. Circola in ambienti europei, che io ricordi, da almeno una decina d’anni. Se ne fece promotore, ad esempio, Giuliano Amato. In sostanza, secondo la proposta Tremonti-Juncker, la Commissione europea avrebbe la possibilità di emettere titoli pubblici a nome e per conto dell’Unione europea, non di singoli Stati. È un’ottima idea e aggiungerebbe un altro tassello al puzzle che dovrebbe comporre l’unione fiscale, alla fine di un processo che immagino piuttosto lungo di costruzione del consenso politico-sociale. La possibilità di emettere e-bonds, infatti, darebbe modo all’Unione di ampliare quantitativamente il proprio bilancio, attualmente molto limitato, e soprattutto consentirebbe di allargare la gamma d’azione della politica fiscale comunitaria (che attualmente serve prevalentemente a finanziare la politica agricola comune). Politicamente, quindi, sarebbe un passo nella direzione dell’unione fiscale così come l’ho descritta precedentemente.
Secondo lei, perché questa proposta incontra pareri sfavorevoli?
La proposta non incontra grande consenso proprio perché alcuni paesi sono fieramente avversi a concedere spazio sovrano alle autorità europee in materia di politica fiscale. Il Regno Unito è da sempre avverso a un allargamento del bilancio europeo. Più recentemente, la Germania della Kanzlerin Merkel si è messa sullo stesso binario, in buona sostanza perché teme di dover pagare il conto del lassismo altrui. Storicamente, almeno nella repubblica post-gollista, la Francia si è dimostrata aperta a proposte di ampliamento e rafforzamento politico del bilancio europeo. Più recentemente, però, la Francia di Sarkozy sembra essersi allineata alla Germania. Per questo motivo ritengo la proposta politicamente ancora debole e quindi non fattibile.
Che futuro vede per l’euro?
La sopravvivenza dell’euro è a rischio. Per salvare la moneta unica occorre procedere in due direzioni: (a) l’introduzione di un meccanismo credibile e permanente di soluzione delle crisi del debito sovrano dei paesi partecipanti all’Unione monetaria europea (Ume), (b) una politica fiscale comune. Su (b) ci siamo già soffermati nelle risposte precedenti. A me sembra che il cammino sia ancora lungo e vada accelerato per prevenire le crisi del debito sovrano. Per quanto riguarda (a) si sono fatti passi avanti essenziali, più rapidamente che sul fronte fiscale, ma c’è ancora molto da fare e da chiarire. Attualmente, il meccanismo di soluzione delle crisi del debito sovrano (ideato a maggio per far fronte alla crisi greca) è temporaneo (durerà fino al 2013) e solo parzialmente credibile. Esso si basa a sua volta su due gambe: l’attivazione di un sistema di aiuti europeo al paese in crisi e l’acquisto di titoli pubblici da parte della Banca Centrale Europea (Bce).
E come funziona il sistema di aiuti europeo?
Attualmente esso consiste nell’attivazione, in caso di crisi, dell’European Financial Stability Mechanism (Efsm) e dell’European Financial Stability Facility (Efsf). Il primo è limitato (60 miliardi di euro) e finanziato con fondi comunitari; il secondo è molto più rilevante (440 miliardi di euro) e finanziato con fondi raccolti sui mercati finanziari mediante l’emissione, da parte di Efsf, di obbligazioni garantite dai governi europei (c’è quindi già almeno un abbozzo di e-bond). A questi fondi si aggiungono quelli messi a disposizione dal Fmi. L’erogazione degli aiuti europei inoltre è sottoposta alla condizionalità dell’Unione Europea: il paese destinatario deve adottare misure di risanamento fiscale concordate con l’Unione per poter accedere ai fondi. I fondi messi sul tavolo finora sono più che sufficienti per far fronte alla crisi del debito sovrano di Grecia, Irlanda e Portogallo, ma sono a rischio di esaurimento se il problema dovesse colpire seriamente la Spagna. Non si tratta però soltanto di accrescere la dotazione di questi fondi, ma anche di rendere permanente e rivedere il funzionamento del meccanismo.
In quale direzione andrebbe rivisto il meccanismo?
L’asse franco-tedesco (Merkel-Sarkozy) ha proposto di sostituire i due fondi visti sopra con un “meccanismo di stabilizzazione europeo” (permanente) a partire dal 2013. La parte più controversa di questa proposta è l’idea di rendere partecipi della soluzione della crisi anche gli investitori privati: i detentori di titoli di Stato del paese in crisi dovrebbero accettare una riduzione del valore dei titoli (haircut) o un allungamento delle scadenze o una riduzione del servizio del debito. In altri termini, del meccanismo di soluzione farebbe parte non solo il bail-out a carico dell’Unione europea ma anche il bail-in a carico degli investitori privati. A me sembra una richiesta sacrosanta, ma ovviamente ha innervosito i mercati perché gli investitori in obbligazioni di Stato anticipano di doversi accollare una ristrutturazione – peraltro soft e ordinata – del debito. Occorre però aver chiaro che prima o poi il problema di una ristrutturazione del debito sovrano di paesi come Grecia o Irlanda si riproporrà. I pacchetti di aiuto hanno solo “comprato tempo”. Inoltre la condizionalità dell’Unione finora mi è sembrata semplicemente ottusa. La Grecia ha dovuto accettare una tabella di marcia nel riequilibrio di finanza pubblica semplicemente poco credibile. I risparmi di spesa e l’incremento di entrate rischiano di essere vanificati se il Paese non riesce più a crescere. Per uscire dal cul de sac, gli operatori dei mercati finanziari dovrebbero adattarsi a una prospettiva di più lungo periodo nel riequilibrio della finanza pubblica e a partecipare a una ristrutturazione soft e ordinata del debito pubblico esistente. Ciò li aiuterebbe anche a prezzare meglio il rischio che si assumono.
Che ne pensa del programma di acquisto di titoli del debito pubblico da parte della Bce?
L’acquisto dei titoli pubblici dei paesi in crisi da parte della Banca centrale europea è la seconda gamba del meccanismo di risoluzione delle crisi. È stata definita l’“opzione nucleare” all’epoca del pacchetto greco, per connotarne la novità dirompente rispetto alla gestione della politica monetaria pre-crisi. Finora l’intervento è stato limitato (meno di 100 miliardi di euro). Molto probabilmente, occorrerà un notevole incremento degli acquisti. Qualche economista ritiene che questo tipo di intervento dovrebbe raggiungere 1000 miliardi di euro, ma non mi sembra che, all’interno della Bce, ci sia la volontà politica di spingersi fino a questo punto. In particolare, l’attuale governatore della Bundesbank Axel Weber (pretendente alla carica di presidente della Bce allo scadere del mandato di Trichet) si è espresso pubblicamente contro questo tipo di politica. Eppure questa disponibilità da parte della Bce è certamente l’ingrediente chiave (assolutamente irrinunciabile) per stabilizzare i mercati in presenza di rischio sovrano.