Alcuni giorni fa, mentre ero immerso nell’ennesimo documento pubblicato dal Comitato di Basilea, l’agenzia di stampa Reuters ha pubblicato una di quelle notizie che, strappando un sorriso amaro, spiegano l’attuale congiuntura meglio di molti numeri.
Questi i fatti riportati dall’agenzia inglese. Madrid, tarda mattinata. Davanti agli uffici del Banco di Bilbao, una piccola folla si va raggruppando all’ingresso dell’istituto. Le persone in fila sono accomunate da un interesse che ha ben poco di finanziario: si tratta degli iscritti a una maratona benefica, organizzata dalla banca stessa, che si terrà da lì a qualche giorno. Gli aspiranti corridori sono semplicemente in attesa di ricevere il proprio numero di gara.
In pochi minuti i passanti cadono in preda al panico e, trasformatisi in centometristi, si precipitano alla filiale per sincerarsi sulle condizioni dei propri risparmi. La voce si sparge per la capitale e solo il pronto intervento dell’istituto scongiura una folle corsa agli sportelli: come confermato da un portavoce della banca, si trattava solo di una maratona benefica.
Già in epoca scolastica, chi tornava a casa con pagelle non proprio brillanti, sapeva che gestire la comunicazione di una notizia è importante almeno quanto la notizia stessa. Sui mercati, dove al posto di due genitori apprensivi ci sono operatori dal cardiopalmo di un maratoneta all’ultimo chilometro, la storia non cambia: gestire bene le emergenze è importante. Far capire che le emergenze sono gestite bene lo è ancora di più.
Un breve esempio, tratto dalle cronache recenti. Luglio 2010. Il Cebs (il Comitato europeo dei supervisori bancari) pubblica i risultati del fatidico stress test: Bank of Ireland e Allied Irish Bank passano il test a pieni voti. Anglo Irish Bank, ormai completamente nazionalizzata, viene esclusa dal perimetro del test (cosa potrà mai accadere a una banca salvata dallo Stato?). Sull’utilità di questo test, gli osservatori economici si erano già pronunciati su queste pagine senza troppe illusioni (anch’io avevo dedicato un articolo all’argomento, proprio alla vigilia dei risultati). Cinque mesi dopo, la beffa: la tigre celtica annaspa in un mare di debiti.
Prima di analizzare i motivi di questa crisi, un semplice numero: qualunque cosa questo strano indice significhi (secondo me, la percentuale in sé non dice nulla), il rapporto debito pubblico/Pil dell’Irlanda nel 2009 era al 57,7%. Evidentemente la congiuntura economica non consulta spesso le statistiche che reggono la moderna scienza delle finanze.
Cosa è successo? Uno studio di Barclays svela l’arcano: nel test di luglio, l’analisi si era concentrata sul trading book, ovvero quella porzione del bilancio di una banca in cui le esposizioni sono aggiornate mensilmente secondo le valutazioni del mercato. La porzione restante del bilancio, il banking book, all’epoca fu esclusa: delle valutazioni di una banca, valutazioni non sottoposte ai mercati, non ci si deve interessare.
Insomma, per valutare un rischio meglio affidarsi alle agenzie di rating! Non credo che dalle parti di Anglo Irish Bank siano così d’accordo: alcuni giorni fa, Standard & Poor’s ha rivisto al ribasso il rating dell’istituto, abbassandolo di sei gradi in un colpo solo (ora secondo l’agenzia di rating americana, il titolo di una banca nazionalizzata è un junk-bond). A quel punto, sui mercati dell’euro ci si è rassegnati al peggio.
Forse, all’epoca dello stress test, la decisione di escludere il banking book fu dettata dall’opportunismo (ampliando il perimetro delle analisi, le banche irlandesi non avrebbero passato il test), forse la scelta fu ispirata da una cieca fiducia nelle capacità dei mercati (a cui corrisponde una netta sfiducia nella capacità degli istituti). Immaginare cosa sarebbe successo se il test fosse stato più rigoroso, è un esercizio inutile. Tuttavia, c’è un elemento importante che deve essere registrato: alla base dello stress test c’è un’impostazione che esclude l’imprevisto.
Tutto è calcolato a priori: la Perdita Attesa, da coprire con adeguate riserve, e la Perdita Inattesa, calcolata secondo modelli statistici approvati e imposti da una sfilza di regolatori e autorità varie. Il Cebs non è certo l’unico ad applicare questa impostazione positivista: basti pensare ai metodi di contabilità Ias, secondo cui gli attivi di un bilancio variano al variare dei mercati, oppure è sufficiente sfogliare i manuali delle agenzie di rating, per cui le perdite future sono il risultato di medie e deviazioni standard. La lista potrebbe continuare fino a riempire un paio di articoli. Mi limito a segnalare i regolamenti del comitato di Basilea, per cui il rischio è riconducibile alla probabilità di default.
È tutto un problema di statistica? Non credo che il calcolo probabilistico sia l’origine dei nostri mali. È nel modo in cui maneggiamo i numeri, a mio avviso, che si nasconde la trappola. Se al centro dell’economia e della finanza, ci fosse una schiera di computer, allora sì, la statistica ci indicherebbe i prezzi di domani con la stessa precisione con cui il moto browniano stima la traiettoria delle molecole in un fluido.
Purtroppo per i teorici della finanza, al posto dei disciplinati calcolatori, tra le scrivanie delle banche si aggirano persone in carne e ossa. E allargando il campo degli operatori economici, la situazione non diventa certo più logica: il razionalismo impossibile per un trader sopravvissuto a un infarto, due divorzi e tre pinte di birra al giorno negli ultimi quindici anni non si può certo pretendere dalla massaia madrilena che si precipita allo sportello al primo falso allarme.
In definitiva, l’Irlanda si salverà? Non lo so ma, non essendo uno di quei guru che vive profetizzando sventure, mi auguro di sì. C’è una questione su cui, tuttavia, voglio pronunciarmi: a oggi i titoli pubblici dei diversi paesi dell’Unione, pur essendo tutti denominati in euro, pagano tassi di interesse differenti a seconda del rischio percepito. Per questo motivo, un titolo greco paga uno spread del 9%, mentre un titolo tedesco a scadenza un anno può limitarsi a uno spread “zerovirgola” (0,6% sull’Euribor, mentre scrivo). In una situazione normale, a riequilibrare la disparità tra i due rendimenti ci penserebbe il tasso di cambio tra le due valute. Ma Germania e Grecia hanno la stessa valuta.
La prima conseguenza che ne ricavo è che l’Euro degli europei non esiste. Non tanto perché l’euro sia una moneta di cioccolato (se Bruxelles battesse un colpo, sarebbe comunque apprezzato), ma perché sono gli europei a non aver mai fatto capolino. A bruciare le auto ad Atene ci sono i greci, a urlare contro il Fondo Monetario Internazionale a Dublino ci sono gli irlandesi.
La seconda conseguenza ricalca la storia trita e ritrita della formica e della cicala. Pare che alcuni paesi abbiano vissuto oltre le proprie possibilità. A una prima reazione, ci piace pensare che la cicala se la sia andata a cercare. Quando poi, imprevisto dopo imprevisto, la lista delle cicale si allarga fino a coinvolgere tutti, di colpo la cicala sembra degna di un’altra chance.
E per quanto ne dicano i modelli econometrici, una nuova opportunità comporterà nuovi rischi. La tentazione sarà di costringere la cicala a pianificare il futuro come un computer. La sfida sarà dimostrare che per vivere insieme, condividendo una moneta comune, non è necessario trasformarci in computer.