C’è un’Italia competitiva, assolutamente sottorappresentata dai media e misconosciuta dall’immaginario collettivo. È l’Italia che ha reso possibile il miracolo di Shangai, quello per il quale la società statale cinese che ha organizzato l’Expo ha deciso di non smantellare il padiglione italiano – e solo quello, contrariamente alle norme da sempre in vigore per le esposizioni universali – allo scopo di conservarlo come museo.



È l’Italia che produce ed esporta in tutto il mondo, nonostante la scala piccola delle sue aziende; l’Italia che risparmia, e acquista i suoi titoli di Stato, evitando che finiscano in maggioranza nelle mani degli investitori stranieri come accade invece a quelli degli Stati Uniti. È l’Italia che sta iniziando a riattirare cervelli, nonostante tutto, e che riesce pur in una grave turbolenza politica a proporre una riforma universitaria non priva di alcuni importanti progressi.



È anche un’Italia che guarda perplessa a certi balletti del Paese “legale”, non solo circoscritti alla politica ma, per esempio, anche al mondo delle rappresentanze, che sembrano lontani anni luce dalla frontiera del reale: come, ad esempio, la polemica sulla flessibilità e la produttività in Fiat, per l’adozione di schemi operativi già invalsi in centinaia di aziende anche medie e grandi, eppure oggetto di un contendere che vede senz’altro la Fiom-Cgil, ma anche in parte la stessa Confindustria, ancorate a realtà virtuali che nei fatti sono già state ampiamente e utilmente superate in moltissimi casi. Il Nord-Est insegna.



Su quest’Italia che “ce la fa” grava un’unica grande incognita economica, che però si somma a quella dell’incertezza politica, generando un miscuglio potenzialmente esplosivo: il debito pubblico. Il 2010 si chiuderà con l’ennesimo record storico, 1.867 miliardi di debito, pari a quasi il 120% del Pil. E nel prossimo anno – come sicuramente il consiglio europeo che inizia oggi sancirà – la parola d’ordine per tutti i paesi dell’Eurozona sarà proprio quella di ridurre il debito, per dare più sostanza all’euro, incrociare le richieste imperiose della Germania, prevenire nuovi assalti speculativi agli Stati più deboli del sistema.

Per tentare di invertire la tendenza del debito alla crescita e ricominciare a farlo calare, è necessario riporre mano alle privatizzazioni, potenzialmente ancora ricche di introiti preziosi per le casse pubbliche, soprattutto se gestite con mano diversa da quella usata in passato. Ma sarà anche fatale che arrivino ulteriori vincoli di bilancio.

 

La risposta che la politica dichiara di voler dare al problema si sa qual è: il federalismo fiscale. Una sorta di toccasana, perché permetterebbe di riportare finalmente sotto controllo la spesa pubblica impazzita delle periferie, responsabilizzandone i gestori. È possibile che sia una cura efficace, ma il suo limite è quello di non essere tempestiva: è solo dal 2017 che i costi standard delle amministrazioni regionali virtuose – esempio per tutti: la Lombardia nella sanità – diventeranno il parametro di riferimento per le regioni del Sud che saranno obbligate a dimenticare i loro costi storici per determinare i budget futuri. Ancora cinque anni di manica larga? Impensabile!

 

Impensabile e punitivo per l’“altra Italia”, quella che continua a lavorare e a rischiare in proprio, che ha superato la crisi finanziaria ed è alla prese con quella economica, che sta imparando a fare a meno delle banche “amiche” di una volta, dove conoscevi il direttore di filiale e ci parlavi con semplicità. L’altra Italia che sa sempre cavarsela, insomma, ma che è spiazzata dalla pompa idrovora di un fisco insaziabile, tuttora unica arma in mano alla politica per tamponare le falle della spesa improduttiva.