Quando la Confindustria emette le sue sentenze sull’Italia che “delude” non sta parlando al Paese, ma alla politica. Lo ha fatto anche ieri il Centro Studi dell’associazione nel suo “Scenari Economici”.
Le frasi che vi si leggono sembrano essere state calibrate con un’attenzione ancora maggiore del solito in modo che il messaggio arrivasse forte e chiaro. Eccone alcune: il nostro Paese “replica la cattiva performance che ha manifestato dal 1997 in avanti. Aumenta il conto delle riforme mancate o incomplete o inadeguate rispetto a quanto realizzato dai partner-concorrenti”. “La frenata estiva e autunnale è stata decisamente più netta dell’atteso e il 2010 si chiude con produzione industriale e Pil quasi stagnanti. La malattia della lenta crescita non è mai stata vinta, come la migliorata dinamica della produttività nel 2006 e nel 2007 aveva lasciato sperare”.
Per concludere con un “L’Italia delude”, che non è molto diverso dal famoso “La Fiat senza l’Italia farebbe meglio”. In questo caso la Confindustria sembra essere d’accordo: gli industriali, senza l’Italia, farebbero meglio. Ma è un calambour.
Se, quindi, la Confindustria sta criticando l’immobilismo del governo, lo fa prendendo spunto dalle “riforme mancate”. E ha ragione. Ma è paradossale che la Confindustria accusi il governo di non avere avuto il coraggio di riformare il Paese quando lei stessa ha dovuto subire l’uscita dall’associazione della più importante industria privata del Paese proprio per lo stesso motivo.
Perché le relazioni sindacali firmate dalla Confindustria non sono al passo con i tempi, imbrigliano la sua competitività. In questo senso Sergio Marchionne che esce dalla Confindustria, accusandola di non essere all’altezza delle sue aspettative, assomiglia a Gianfranco Fini che esce dal governo accusandolo di aver tradito le promesse.
Ma al di là di questo parallelo, occorrerebbe che la Confindustria dicesse al Paese quali sono le riforme che lei per prima ha introdotto nelle relazioni sindacali, l’ambito nel quale la sua azione ha maggior rilievo per gli associati e per il Paese. Occorrerebbe forse avviare una riduzione della pletorica, spesso inutile e ridondante struttura territoriale della Confindustria, presente in ogni provincia italiana attraverso praticamente tutte le sue articolazioni settoriali, che costringono un imprenditore a pagare una quota d’iscrizione due volte: come appartenente a una categoria produttiva e come residente in un territorio. Se il governo non ha tagliato le province (e ha fatto molto male), la Confindustria non ha ridotto i propri costi.
Occorrerebbe pensare se non sia il caso che nel momento in cui Silvio Berlusconi ha dovuto sostenere un voto di sfiducia per l’uscita del suo maggiore alleato, Emma Marcegaglia non si interroghi sulla responsabilità della sua presidenza nell’aver consentito che la maggiore azienda privata del Paese abbandonasse l’organizzazione. Un abbandono che non è credibile possa essere pro-tempore.
Nella gara a chi non ha riformato l’Italia, la Confindustria non è un giudice, è un concorrente.
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