Sul quotidiano Il Giornale del 16 dicembre, con un pezzo che inizia in prima pagina, l’editorialista Nicola Porro si rivolge direttamente al Presidente del Consiglio, affinché operi un deciso taglio delle tasse. Lo spunto viene fornito dal recente report dell’Ocse, dal quale risulta che il peso del fisco sul Pil sia al 43,5% in Italia, e questo pone il nostro paese al terzo posto nella classifica del peso fiscale maggiore tra i paesi sviluppati.



Il ragionamento che viene svolto è il seguente: lo Stato tassa troppo, anche perché spende troppo. Siccome lo Stato spreca, il modo migliore per tagliare questi sprechi e rilanciare l’economia è quello di tagliare le tasse. Anzi, in un periodo di crisi come questo, quello che una volta poteva essere una scelta opportuna, ora diventa una strada obbligata.



Il ragionamento sembra denso di sano buonsenso. Ma, come tanti ragionamenti simili di questo periodo, non tiene conto della questione monetaria, della questione finanziaria e delle dinamiche sottese. Quella che viene rappresentata è solo un’immagine, un fotogramma, mentre ci troviamo davanti a un film.

Finché sarà più remunerativo (e più facile) fare profitti nei mercati finanziari piuttosto che nell’economia reale, il denaro si sposterà preferibilmente in quella direzione, nonostante tutti gli sforzi e le politiche economiche degli stati. E così, mentre l’economia reale soffre una situazione di rarefazione monetaria, sempre più si amplia il peso relativo tra finanza ed economia reale, con grave squilibrio a danno di quest’ultima.



La continua produzione di nuova moneta, che la Bce ha sempre operato, sia prima che dopo la crisi, non fa che aggravare il problema. Infatti, finché viene stampata e addebitata, per sua natura la moneta-debito è un prodotto finanziario. In tale assurda situazione, nuovo debito si aggiunge al vecchio, in una spirale senza fine.

In tale ottica, appare evidente perché la richiesta di Porro di un abbattimento della pressione fiscale, se fosse attuata, sarebbe destinata al fallimento. Lo Stato, come ogni altro soggetto fiscale, non mangia denaro, non si nutre di moneta. Per le sue necessità (anche per gli sprechi!) non può far altro che spendere. Ogni diminuzione della capacità di spesa dello Stato non farà che indurre un proporzionale impoverimento della realtà economica della popolazione, famiglie e imprese. Se lo Stato licenzia centomila dipendenti, vi saranno centomila stipendi in meno che non potranno essere spesi nell’economia reale. Se lo Stato taglia dieci miliardi di spese per forniture (di qualsiasi tipo, non fa differenza al fine del nostro ragionamento), le aziende fornitrici incasseranno dieci miliardi di meno. E nel giro di pochi mesi, anche il fisco si accorgerà di queste minori entrate.

Sotto questo aspetto, anche un ipotetico aumento delle tasse risulta del tutto inefficace. Infatti, non si può pensare di risolvere un problema di stock con un’operazione intesa a influenzare il flusso, cioè il Pil. I problemi di debito non si risolvono modificando il Pil, al contrario di quanto ancor oggi dotti professori insegnano.

Su questo aspetto, vi sono due punti notevoli da sottolineare. Il primo è il preconcetto sulla crescita e sulla sostenibilità del debito: “Se il debito pubblico cresce allo stesso tasso di crescita del Pil, in modo da mantenere il rapporto tra debito pubblico e Pil costante, questo non è un male” (Ignazio Musu, Il debito pubblico, Il Mulino, 1998, pag. 50). In qualsiasi manuale di economia possiamo trovare affermazioni simili. Ma, mentre lo Stato (o qualsiasi altro operatore del mercato) non può “decidere” quale deve essere o quale sarà il Pil, al contrario la Banca Centrale determina di propria autorità l’interesse da pagare sulla moneta che produce, quindi il prezzo minimo per il debito dello Stato.

 

Ebbene, basterà dare uno sguardo ai dati storici, per comprendere la condotta “criminale” perpetrata dalla Bce in questi anni: il tasso di sconto è sempre stato fissato, poco o tanto, al di sopra della percentuale di crescita del Pil dei paesi che utilizzano l’Euro. Questa condotta non ha fatto che favorire i più forti (come la Germania), sfavorendo i più deboli e bisognosi di moneta. La moneta-debito non ha fatto altro che far esplodere il debito.

 

Il secondo punto da sottolineare è che il principio sopra esposto è falso. E l’incapacità di comprenderne la falsità dipende dalla non comprensione della questione monetaria. Quello di cui non si tiene conto è un elemento tanto ovvio quanto decisivo. In un’economia in continua crescita, il Pil crescente avrà necessariamente bisogno di una quantità di moneta crescente. Ma se la nuova moneta è, per antico pregiudizio, solo moneta-debito, allora la dinamica di crescita del debito complessivo (nuovo debito monetario che si somma al vecchio debito, più gli interessi) sarà sempre superiore a qualsiasi possibile crescita del Pil. E non bisogna farsi ingannare dai pochi punti percentuali in questione. Se si tratta di interesse composto, la curva di crescita risultante è una curva di tipo esponenziale, cioè una crescita del debito esplosiva.

 

Per pareggiare il costo del debito precedente col nuovo debito monetario, non basta una crescita del Pil pari agli interessi. Ci vorrebbe maggiore crescita, ma questa richiederebbe ancora maggiore moneta-debito. Una spirale senza fine.

 

Allora, la politica di tenuta in ordine dei conti, applicata dall’attuale governo, può essere utile per prendere tempo ed evitare che la speculazione internazionale prenda il sopravvento, nell’attesa di una radicale riforma del sistema monetario.

Occorre dire e affermare ciò che oggi appare indicibile e impensabile. Occorre che gli stati tornino a stampare moneta, senza indebitarsi con nessuno. Magari senza uscire dal sistema euro, tornando a stampare le monete nazionali (e ponendoci così nelle stesse condizioni di Gran Bretagna, Danimarca e Svezia, che decidono sull’euro, ma usano proprie monete nazionali). Iniziando così un sistema di Monete Complementari.

 

Stampare moneta! Una cosa vista con orrore da tutti gli economisti, che iniziano subito a straparlare di inflazione. La cita anche un commentatore, in un intervento a un articolo di Bottarelli. Ma vogliamo imparare a guardare in faccia alla realtà? Cosa ha fatto la Bce in questi anni, se non stampare fiumi di euro? Cosa ha fatto nel 2007, prima della crisi? Non è forse vero che l’aggregato monetario M3 è aumentato in quell’anno del 12%? Ha stampato fiumi di moneta in tutti questi anni: abbiamo forse visto inflazione?

 

Quest’anno, da ottobre 2009 a ottobre 2010, l’aggregato monetario M1 (banconote e conti correnti) è passato da 4434 miliardi a 4680 miliardi, con un aumento assoluto di 246 miliardi e un aumento percentuale pari al 5,5%, molto al di sopra della crescita dell’economia reale italiana nello stesso periodo. Qualcuno ha forse visto un’inflazione galoppante?

 

Perché non si parla di inflazione quando si stampa moneta a favore del sistema bancario, per salvare una banca o l’altra, mentre se ne parla nell’ipotesi di stampare moneta per coprire i costi del sistema sanitario o per pagare le pensioni?

 

Nonostante le difficoltà culturali e concettuali a ricevere questo tipo di idee, speriamo sinceramente che politici ed economisti abbiano la libertà di guardare in faccia alla realtà, quella realtà che molti di noi hanno quotidianamente sotto gli occhi. A volte l’uomo è testardo, ma la realtà lo è di più!